Il disturbo della lettura, conosciuto
anche come dislessia evolutiva, interferisce notevolmente
con l'apprendimento scolastico o con le attività della
vita quotidiana che richiedono capacità di lettura.
L’individuazione precoce della presenza di disturbi
specifici del linguaggio consente di programmare interventi
riabilitativi e pedagogici mirati; grazie ad una diagnosi
e ad un intervento precoce, la prognosi è buona in una
percentuale significativa di casi, anche se le difficoltà
possono persistere nell'età adulta. I fattori di rischio
che predispongono alla DE sono principalmente genetici,
ma il modello di trasmissione genetica della malattia
è complesso; un recente studio, l’unico su un campione
italiano, ha confermato un coinvolgimento del cromosoma
15 nell’influenzare il rischio di dislessia.
Definizione.
I Disturbi dell'Apprendimento sono costituiti dal Disturbo
della Lettura, Disturbo del Calcolo, Disturbo dell'Espressione
Scritta. I problemi di apprendimento interferiscono in
modo significativo con i risultati scolastici e con le
attività della vita quotidiana che richiedono capacità
di lettura, di calcolo, o di scrittura.
Il Disturbo della Lettura è anche conosciuto come Dislessia
Evolutiva (DE), insorge assai frequentemente in associazione
con il Disturbo del Calcolo e dell'Espressione Scritta
e, da solo o in associazione con essi, è responsabile
di circa 4 casi su 5 di Disturbo dell'Apprendimento. La
stima di prevalenza della DE negli USA è del 4% fra bambini
in età scolare e anche in Italia oscilla fra il 3 e il
5%. Eventuali differenze fra stime di prevalenza nei diversi
paesi possono derivare dalle caratteristiche della lingua:
in lingue con ortografia trasparente, quali l’italiano,
le lettere o i gruppi di lettere corrispondono in modo
univoco a ciacun fonema del linguaggio parlato, quindi
sono poche le parole la cui corretta pronuncia non possa
derivare dalla lettura mediante conversione grafema-fonema,
mentre l’inglese ed il tedesco sono lingue ortograficamente
più complesse, ciò può spiegare un numero di casi di DE
inferiore in Italia rispetto agli USA, per esempio.
Inoltre,
il disturbo si riscontra più frequentemente fra i maschi
(60-80%) rispetto alle femmine, una possibile spiegazione
di questa disparità è costituita dall’evidenza che i maschi
mostrano più spesso, in associazione con le difficoltà
di apprendimento, problemi del comportamento, quindi vengono
segnalati e giungono all’osservazione con maggior frequenza
rispetto alle femmine. Molti soggetti (10-25%) con disturbi
dell’umore e con disturbi comportamentali sono affetti
anche da disturbi dell'apprendimento. In particolare,
in soggetti con DE, la copresenza di Disturbo da Deficit
Attentivo con Iperattività si riscontra circa nel 50%
dei casi. Inoltre, anche demoralizzazione, scarsa autostima,
e deficit nelle capacità sociali possono essere associati
alle difficoltà di apprendimento; la percentuale di bambini
o adolescenti con tali problematiche che abbandonano la
scuola è stimata intorno al 40% (circa 1,5 volte in più
rispetto alla media). Anche gli adulti con disturbi dell'apprendimento
possono avere notevoli difficoltà nel lavoro o nell'adattamento
sociale.
I disturbi dell'apprendimento vengono diagnosticati dopo
aver somministrato individualmente al soggetto test specifici
che valutano i processi di lettura, calcolo, o espressione
scritta, in cui i risultati ottenuti risultano significativamente
inferiori rispetto ai punteggi riportati da soggetti di
pari età e a quanto atteso in base al livello di istruzione
e di intelligenza.
Secondo il manuale diagnostico più comunemente usato (DSM
IV, American Psychiatric Associaton, 1994), per formulare
una diagnosi di DE è necessario che il disturbo presenti
le seguenti caratteristiche fondamentali:
- il livello di capacità di lettura raggiunto (in quanto
a precisione, velocità, o comprensione della lettura misurate
da test standardizzati somministrati individualmente)
si situa sostanzialmente al di sotto di quanto ci si aspetterebbe
data l'età cronologica del soggetto, la valutazione psicometrica
dell'intelligenza, e un'istruzione adeguata all'età;
- l' anomalia descritta interferisce notevolmente con
l'apprendimento scolastico o con le attività della vita
quotidiana che richiedono capacità di lettura;
- se è presente un deficit sensoriale, le difficoltà nella
lettura vanno al di là di quelle di solito associate al
deficit sensoriale in questione.
La procedura diagnostica prevede una prestazione inferiore
alla seconda deviazione standard (una misura statistica
della “distanza” rispetto alla media del campione) in
un test standardizzato per l’abilità di lettura (Cornoldi
e gruppo MT, 1981; Sartori, Job e Tressoldi, 1995), e
una prestazione nella norma ad una scala di livello intellettivo
(WISC-R, Scala di intelligenza Wechsler per bambini-riveduta,
Wechsler, 1986).
Queste valutazioni dovrebbero consentire di differenziare
la normale variabilità nelle abilità di lettura dalla
DE, che può essere diagnosticata solo se al soggetto sono
state fornite adeguate opportunità scolastiche e culturali,
se il suo quoziente intellettivo risulta essere nella
media e se non sono presenti deficit sensoriali che possano
da soli spiegare i problemi di lettura.
Nei soggetti con DE, la lettura sia orale che a mente
è caratterizzata da lentezza ed errori specifici, quali
l’inversione di lettere e numeri (es. 13-31), la sostituzione
di lettere (es. b/d; m/n; v/f), l’omissione di lettere.
Tipiche sono anche le difficoltà nell’imparare informazioni
in sequenza (es. le lettere dell’alfabeto, le tabelline,
i mesi dell’anno) ed i rapporti spaziali e temporali (destra/sinistra;
ieri/domani), le difficoltà nel calcolo e nell’acquisire
abilità motorie che richiedono coordinazione oculo-motoria
fine (es. allacciarsi le scarpe).
Sono evidenti le difficoltà di lettura, sia nella capacità
di riconoscere e denominare in modo scorrevole e corretto
le parole contenute in un testo, sia nella comprensione
di esso, intesa come capacità di coglierne il significato,
elaborando e recuperando le rappresentazioni mentali di
quanto si è letto. E’ importante sottolineare però che
tale difficoltà di comprensione deriva dalla decodifica
lenta e stentata del testo scritto, implicita nel disturbo,
e non da una difficoltà nell’acquisizione del significato
del testo. Ecco perché la possibilità di usufruire di
una didattica differenziata (l’uso di libri “parlati”e
interrogazioni orali invece che compiti scritti) costituisce
un diritto per il dislessico, affichè possa apprendere
e dimostrare le nozioni che è perfettamente in grado di
acquisire.
Sebbene alcuni sintomi delle difficoltà di lettura possano
essere riscontrati già dalla scuola materna (incapacità
di distinguere tra lettere comuni, o di associare suoni
comuni con simboli letterali), il disturbo viene di rado
diagnosticato prima della fine dell'asilo o dell'inizio
delle scuole elementari perché l'insegnamento formale
della lettura di solito non inizia prima di questo livello
nella maggior parte degli ambienti scolastici. Specie
quando associata ad un quoziente intellettivo alto, il
bambino può funzionare al livello della classe o quasi
nelle prime classi e la DE può non essere pienamente evidente
fino alla quarta elementare o oltre. Studi retrospettivi
che hanno analizzato i precursori dei disturbi specifici
dell’apprendimento, hanno dimostrato che la maggior parte
dei bambini con DE presentavano difficoltà nello sviluppo
del linguaggio nei primi anni di vita. I disturbi del
linguaggio colpiscono il 5-6% dei bambini in età prescolare.
Numerose ricerche che hanno cercato di individuare i fattori
predittivi dei disturbi specifici dell’apprendimento in
popolazioni normali hanno messo in evidenza una forte
correlazione tra apprendimento della lettura e livello
linguistico raggiunto alla scuola materna.
Queste
evidenze rendono necessario, da un punto di vista operativo,
l’individuazione precoce (già in età prescolare) della
presenza di disturbi specifici del linguaggio, in modo
sia di programmare interventi riabilitativi e pedagogici
mirati, sia di valutare esattamente, in base alla tipologia
e al livello di gravità, il rischio per disturbi dell’apprendimento
già prima dell’inserimento scolare. Dunque, sebbene la
diagnosi di DE venga posta di solito alle elementari,
esistono degli indicatori, quali le capacità linguistiche
e l’esistenza di una familiarità per il disturbo (la presenza
di un consanguineo che presenta difficoltà di lettura)
che possono consentire una precoce individuazione dei
casi a rischio, consentendo un intervento precoce. Grazie
ad una diagnosi e ad un intervento precoce, la prognosi
è buona in una percentuale significativa di casi, anche
se le difficoltà possono persistere nell'età adulta.
Eziologia della dislessia evolutiva – le teorie. La concezione
corrente della DE come sindrome neurologica con una base
costituzionale ci riporta indietro alle descrizioni originarie,
risalenti alla metà del 1800, che riferivano di una “cecità
congenita per le parole”. Già allora era risaputo che
il danno neurologico di certe aree del cervello negli
adulti poteva portare ad un deficit selettivo nella lettura
e nella scrittura (detto alessia), perciò questi primi
resoconti vedevano il disturbo come l’analogo evolutivo
della perdita acquisita delle abilità di lettura. Come
implicato dall’uso del termine “cecità congenita per le
parole” le spiegazioni iniziali di questo disturbo hanno
sostenuto che difetti significativi nel sistema visivo
fossero i soli responsabili degli errori caratteristici
della lettura del dislessico (l’inversione e la trasposizione
di lettere e parole), punto di vista che si è rivelato
poi insostenibile. Sebbene sia stata dimostrata, nelle
persone con DE, la presenza di lievi anomalie in aspetti
specifici della processazione visiva, è improbabile che
queste siano le dirette responsabili dei problemi di lettura.
Ora è ampiamente accettato che la DE sia meglio caratterizzabile
come una condizione nella quale i problemi di lettura
scaturiscono in gran parte da una difficoltà nella rappresentazione
e manipolazione di fonemi (le più piccole unità di linguaggio
parlato che si combinano a formare le parole).
Quando impariamo a leggere sviluppiamo una comprensione
esplicita che le parole possono essere suddivise nei loro
fonemi costituenti, che corrispondono alle stringhe di
lettere presentate visivamente, dette grafemi. Numerose
ricerche sono state condotte al fine di individuare le
possibili cause della DE: sono così emerse diverse teorie,
spesso in conflitto tra loro. La teoria fonologica ha
dominato per alcuni anni nello studio della DE, considerando
la dislessia come una difficoltà cognitiva nella processazione
dei fonemi. Infatti, molti studi hanno rilevato le difficoltà
manifestate dalla maggioranza dei dislessici nell’elaborare
i suoni corrispondenti alle lettere scritte (fonemi),
chiaro esempio delle loro ridotte abilità fonologiche.
Si riscontra quindi un rallentamento del processo di lettura
e la presenza di svariati errori, data la difficoltà di
percepire, memorizzare e richiamare la rappresentazione
fonologica dei segni grafici (Ramus, 2003).
Tuttavia, nessuna ricerca ha potuto chiaramente dimostrare
la diretta relazione causale tra le competenze fonologiche
e il successo nell’acquisizione delle abilità di lettura,
nè è ancora ben chiaro come il difetto fonologico si inserisca
nella complessità del quadro della DE, che include anche
una serie di lievi deficit sensoriali e motori. Infatti,
la maggior parte dei bambini con DE mostra disturbi non
linguistici sia visivi che uditivi (Wright, Vowen, & Zecker,
2000; Stein & Walsh, 1997), i quali sono difficilmente
spiegabili da un’ ipotesi puramente fonologica. In alternativa
sono state formulate ipotesi, secondo le quali la DE deriverebbe
da un difetto di base nel processare rapidamente ed efficientemente
stimoli successivi e transitori che arrivano al sistema
nervoso colpendo tutte le modalità sensoriali. Nell’ultimo
ventennio infatti, la ricerca si è spostata sulla natura
percettiva del disturbo, evidenziando la presenza di un
difetto nella via visiva magnocellulare. Questa teoria,
detta del deficit magnocellulare, si basa su dati che
derivano da studi anatomici, psicofisiologici (registrazioni
elettriche di processi cognitivi) e di imaging funzionale
(visualizzazione dell’attività cerebrale durante compiti
cognitivi), i quali indicano che molte persone con DE
presentano lievi anomalie in una specifica parte del sistema
visivo chiamata appunto “magnocellulare”. Le magnocellule
sono neuroni specializzati nella rilevazione del movimento
dello stimolo visivo e dei cambiamenti rapidi di esso
e sono importanti per il controllo del movimento degli
occhi.
I
circuiti magnocellulari esistono in altre modalità sensoriali,
perciò un deficit magnocellulare multi-modale potrebbe
spiegare la combinazione di deficit visivi e fonologici.
La versione multi-modale della teoria magnocellulare,
suggerisce che i bambini con DE abbiano deficit specifici
nella processazione di brevi stimoli sensoriali presentati
rapidamente sia nella modalità visiva che uditiva. Secondo
l’ottica di questi modelli, il deficit fonologico, responsabile
delle difficoltà di lettura dei dislessici, deriva da
un’incapacità nel discriminare gli indizi acustici che
sono coinvolti nella discriminazione dei fonemi a causa
della ridotta abilità di percepire gli elementi transienti
del linguaggio orale (per esempio, nella discriminazione
fonemica di suoni acusticamente simili da-ba, problemi
nella percezione dell’eloquio (discriminazione di fonemi)
in presenza di rumore di fondo e nella elaborazione di
sequenze di suoni, mentre i tipici errori di sostituzione,
inversione ed omissione sono attribuibili ad un disturbo
dell’elaborazione visiva dell’informazione. In particolare,
la capacità di focalizzare l’attenzione nello spazio costituisce
uno dei fattori cruciali che influenza l’efficienza nell’elaborazione
percettiva visiva e uditiva. Nonostante la grande quantità
di informazioni che sono presenti nei contesti naturali,
noi siamo in grado di focalizzare l’attenzione su una
certa posizione spaziale (e/o un oggetto) e di processarne
l’informazione rilevante.
L’attenzione spaziale focalizzata permette di agire esclusivamente
sullo stimolo selezionato e quindi di tralasciare ogni
elemento distrattore che può essere compresente. Al contrario,
l’attenzione nei DE tende ad essere distribuita, cioè
influenzata da stimoli interferenti e, coinvolgendo la
modalità sia visiva che uditiva, potrebbe causare una
generale difficoltà dell’elaborazione degli stimoli in
qualsiasi compito che richiede una analisi visiva minuziosa.
Difficoltà nella percezione uditiva nei soggetti con disturbo
specifico della lettura sono probabilmente correlate ad
una incapacità di spostare e focalizzare rapidamente l’attenzione
uditiva allo scopo di discriminare precisamente le caratteristiche
del suono. Il rallentatamento nel focalizzare l’attenzione
su una certa posizione nello spazio sembra essere cruciale
per spiegare una varietà di lievi deficit sensoriali e
motori e le abilità di lettura compromesse in modo specifico
nei soggetti dislessici. Uno spostamento rallentato dell’attenzione
nei bambini e negli adulti dislessici può rendere conto
della inefficiente processazione degli stimoli percettivi
sia nella modalità visiva che uditiva (Facoetti, et al.,
2003a). In conclusione si suggerisce che la focalizzazione
attenzionale multi-modale rallentata nei bambini dislessici
possa compromettere lo sviluppo delle rappresentazioni
fonologiche, il quale è fondamentale per l’apprendimento
della lettura Il fatto che uno specifico trattamento dell’attenzione
visiva e uditiva è in grado di migliorare le abilità di
lettura nei bambini DE fornisce un supporto a questa ipotesi,
come suggerito da alcuni studi sulla riabilitazione della
dislessia (Facoetti et al., 2003b; Geiger & Lettvin, 1999).
Infine,
ancor più recentemente è stato suggerito che la DE rappresenti
una generale difficoltà nell’automatizzazione di abilità
che risultano da una disfunzione cerebellare (Nicolson
et al., 2001). Il dibattito continua. I tipi di dislessia.
Il “modello a doppia via” per la lettura strumentale (Coltheart
et al., 2001) prevede che le parole possano essere lette
tramite due diverse vie: -la via fonologica che coinvolge
la processazione dei singoli fonemi costituenti la parola;
-la via lessicale basata sul diretto riconoscimento dell’intero
pattern di lettere, senza apparente bisogno di una mediazione
fonologica . Questo modello a due vie descrive quali sono
i processi implicati nella lettura di soggetti adulti
che hanno già imparato a leggere, e che tipo di deficit
si potrebbe presentare nel caso tali modalità di lettura
vengano lesionate e non siano più operative (dislessie
acquisite). Le dislessie, sia evolutive che acquisite,
possono essere classificate come: Dislessia fonologica:
il bambino presenta maggior difficoltà nella lettura di
non-parole (parole possibili ma che non hanno significato
nelle sua lingua) rispetto alla lettura di parole frequenti
e di parole che costituiscono eccezioni di pronuncia (parole
irregolari).
Le prestazioni ai test di lettura dei dislessici fonologici
mostrano che la correttezza di lettura di parole è significativamente
maggiore rispetto alla lettura di nonparole. Tali sintomi
sarebbero la conseguenza di un’ abilita di lettura basata
sulla conversione grafema-fonema delle singole lettere,
che non ha raggiunto la capacità di segmentazione in sillabe.
Dislessia superficiale: i sintomi sono l’inefficienza
nella lettura di parole contenenti eccezioni di pronuncia
(parole irregolari), mentre vengono lette bene le non-parole.
In Italia sono pochi i casi di dislessia superficiale
poichè l’italiano è una lingua con ortografia trasparente.
Tale deficit sarebbe riconducibile alla incapacità del
bambino di costruirsi un vocabolario lessicale, indispensabile
per automatizzare la lettura, mentre non presenta difficoltà
a compiere la conversione grafema-fonema. Dislessia mista:
è la DE più diffusa, caratterizzata dai sintomi tipici
di entrambe le categorie precedenti, cioè difficoltà sia
nella lettura di parole irregolari che di non-parole.
Basandosi dunque sull’idea che i normo-lettori possono
usare due diverse modalità per decodificare il testo (le
due vie fonologica e lessicale), è stata evidenziata l’esistenza
di queste due forme di dislessia, fonologica e superficiale
e sembra che i due sottotipi riconoscano contributi causali
differenti, essendo quella fonologica più tipicamente
ereditaria e quella superficiale maggiormente dovuta a
cause di tipo ambientale, sostenendo così la tesi che
dislessie ‘diverse’ siano riconducibili a cause differenti.
Ulteriore problema è che la natura e la gravità del deficit
possono variare nei diversi stadi evolutivi della vita
del soggetto con DE.
Questo difficile argomento viene solitamente trascurato
dagli studi, ma potrebbe essere affrontato in futuro raccogliendo
dei dati longitudinali in diversi momenti della vita di
uno stesso soggetto. I trattamenti riabilitativi della
dislessia evolutiva. Gli approcci riabilitativi hanno
l’obiettivo di portare al massimo rendimento le capacità
di base (es. decodifica) e di insegnare ad usare le capacità
presenti in modo più funzionale e strategico.
Questo è possibile grazie all’allenamento di abilità che
fanno da prerequisiti come la metafonologia, la corrispondenza
grafema/ fonema e la conoscenza delle regole ortografiche
e grazie al lavoro sull’automatizzazione delle abilità
di decodifica, di analisi visiva, di orientamento dell’attenzione.
Metodo logopedico tradizionale. Esso punta sull’allenamento
del processo di lettura, sull’attivazione delle abilità
linguistiche correlate e sul miglioramento delle abilità
metafonologiche (percezione, costruzione, manipolazione
di suoni). Esso risulta adeguato anche per i bambini più
piccoli, con difficoltà di apprendimento della lettura
e della scrittura e difficoltà linguistiche associate
ed ha una durata di 1-2 anni. Metodo Bakker. Il modello
di apprendimento della lettura che sta alla base di questo
metodo riabilitativo si fonda sul presupposto che una
modalità di lettura matura è caratterizzata da un corretto
bilanciamento fra due processi: una prima fase di analisi
visuo-percettiva della parola, a carico dell’emisfero
destro, ed una seconda fase di analisi linguistica, a
carico dell’emisfero sinistro. Le tipologie di dislessia
vengono così classificate sulla base di quale dei due
processi si dimostra carente nel soggetto.
I dislessici classificati come P (perché Percettiva è
la strategia che utilizzano) falliscono nello spostamento
dall'emisfero di destra a quello di sinistra: ne risulta
uno stile di lettura lento, frammentario ma corretto;
mentre i tipi L (strategia Linguistica) effettuano prematuramente
lo spostamento a sinistra e la lettura risulta velocee
scorretta, con errori di tipo anticipatorio. Esistono
infine i tipi M (Misto) in cui entrambe le strategie si
rivelano insufficienti dando luogo ad uno stile di lettura
che risulta lento e scorretto. Obiettivo del trattamento
è quindi la stimolazione dell’emisfero sottoattivato,
quello sinistro nei tipi P, il destro negli L ed entrambi
negli M, seguendo una progressione che ricalca il percorso
evolutivo del processo di lettura, che coinvolge prima
il destro poi il sinistro. Il metodo prevede l’utilizzo
del personal computer per presentare al bambino parole
di diversa lunghezza, complessità e frequenza, da leggere
il più velocemente possibile e agisce soprattutto sulle
funzioni legate all’analisi visiva, all’attenzione e alla
capacità di “mettere a fuoco” rapidamente e correttamente
le parti da leggere. Esso risulta adeguato per bambini
di diversa età, con difficoltà di lettura, con e senza
difficoltà di scrittura associate ed ha una durata di
almeno 4 mesi. Metodo Geiger-Lettvin. Questo metodo riabilitativo
(Geiger & Lettvin, 1999) focalizza sull’importanza dei
requisiti percettivi della lettura, come la capacità di
concentrare l’attenzione visiva in una regione ristretta
dello spazio visivo in modo da aumentare le risorse per
processare l’informazione rilevante e da inibire l’informazione
irrilevante. Il presupposto teorico è che nella dislessia
sia presente un’alterata strategia percettiva cioè un
ridotto mascheramento laterale. Obiettivo del trattamento
è quindi imparare a “mascherare” il testo circostante
la parola, a leggere parola per parola, a riconoscere
le forme delle singole parole. Attraverso l’utilizzo di
una mascherina (per un’ora al giorno) che si fa scorrere
sul testo e che favorisce la focalizzazione della parola
da leggere, mascherando tutto quello che sta intorno e
l’esecuzione di compiti di coordinazione oculo-manuale
fine non familiari (per un’ora/due al giorno), che permettono
al bambino di lavorare in uno spazio percettivo ristretto
(scrivere, dipingere, disegnare, infilare perline, cucire,
modellismo, lego, plastilina...), viene favorita la costruzione
di una nuova strategia percettiva.
Il metodo può essere svolto a casa e risulta adeguato
per bambini di qualsiasi età, in particolare per quelli
che hanno anche difficoltà in ambito visuopercettivo e
attentivovisivo. Il bambino dovrebbe lavorare autonomamente
e scegliere il tipo di attività che preferisce, ma che
non è abituato a fare. La durata è di almeno 6 mesi. Infine,
può risultare sempre molto utile per il bambino, al di
là del trattamento riabilitativo prescelto, un intervento
sulla metacognizione al fine di favorire l’uso strategico
delle abilità di lettura, scrittura, comprensione e produzione
del testo scritto.
La parola metacognizione indica la conoscenza su come
opera la nostra mente, cioè non solo il saper fare delle
operazioni mentali, ma anche essere consapevole di come
si fanno (cosa avviene nella nostra mente e quali strategie
sono possibili), perché si fanno (quali sono gli obiettivi
e quali le strategie più indicate), quando vengono messe
in atto (quali sono le condizioni e quali le strategie
più efficaci) ed infine, saper controllare tutte queste
attività. Quindi la metacognizione comprende sia processi
di conoscenza sul funzionamento mentale e sulle strategie,
sia processi di controllo della funzione e della strategia.
Prove dell’efficacia dei trattamenti riabilitativi sono
state fornite anche da alcuni recenti studi di imaging
funzionale (tecniche di visualizzazione dell’attivazione
cerebrale durante lo svolgimento di compiti linguistici)
(Aylward et a., 2003).
I training riabilitativi sono in grado di determinare
cambiamenti nel funzionamento cerebrale, aumentando l’attivazione
di specifiche aree e riproducendo un pattern di attivazione
molto simile a quello di soggetti con normali abilità
di lettura. La genetica della dislessia -un problema complesso.
A partire dal primo caso documentato di dislessia, è diventato
sempre più evidente che i problemi di lettura delle persone
con dislessia costituiscono parte di una sindrome neurobiologica
ereditabile. Sin dall’inizio è stata evidente la tendenza
della DE a ricorrere nelle famiglie e, i moderni studi
familiari e gemellari, indicano che la maggioranza dei
soggetti affetti ha dei parenti a loro volta affetti.
I fattori di rischio che predispongono alla DE sono dunque
principalmente genetici, tuttavia il modello di trasmissione
genetica della malattia è complesso, non segue le leggi
mendeliane; sembra che siano più geni a svolgere un ruolo
causale e che ciascuno di essi non sia sufficiente a determinare
la malattia.
Come per la maggior parte dei tratti cognitivi e comportamentali,
la base genetica è complessa, rendendo l’isolamento dei
fattori di rischio genetici una sfida formidabile. A dispetto
di questo scenario, diversi studi hanno permesso di identificare
aree nel genoma che verosimilmente contengono i geni che
causano la dislessia.Numerosi studi di genetica molecolare
sono stati condotti sul cromosoma 15 e hanno supportato
il ruolo eziologico di questa area in campioni di dislessici
di lingua inglese e tedesca (Schulte-Korne et al., 1998).
Anche un recente studio, l’unico su un campione italiano,
ha confermato un coinvolgimento di questa regione cromosomica,
nell’influenzare il rischio per DE, in un campione di
121 famiglie di dislessici (Marino et al, 2003). Tuttavia
le incongruenze fra i dati riportati devono essere risolte
prima che la prova possa esser considerata schiacciante.
Un'altra area del cromosoma 15 di grande interesse è il
gene DYX1C1, il cui contributo al fenotipo dislessia è
una questione ancora molto dibattuta, poiché alcuni studi
hanno triscontrato l’esistenza di un’associazione (Taipale's
et al.,2003 ), altri non la confermano (Marino et al.,2003
), discrepanza che è forse dovuta all’eterogeneità della
dislessia, per cui il DYX1C1 potrebbe essere un gene candidato
per specifici sottogruppi di dislessici o per particolari
popolazioni. Le evidenze a favore del coinvolgimento di
un altro cromosoma, il 6, sembrano più robuste di quelle
a favore del cromosoma 15, tuttavia, anche i questo caso
ci sono state ricerche che non hanno replicato l’evidenza
di un coinvolgimento su grandi campioni (Petryshen et
al.,2000). Allo stato attuale, i risultati convergono,
anche se in modo non completamente univoco, ad indicare
le aree 6p21.3 e 15q21 come i siti dove, con maggior probabilità,
si trovano i geni causali della dislessia.
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