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L'esperienza significativa di uno studente disabile...

Dalla disabilità alla diversa abilità

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Parole chiave: dipendenza, disabilità, feto, madre, normalità, paradosso, verità.
Un articolo che ci aiuta a riflettere su alcuni concetti fondamentali, a scardinare alcuni pregiudizi difficili da abbattere.
E che ci mette di fronte al punto di vista di chi non ha voce. Ma che avrebbe qualcosa da dire sul significato della parola “disabilità”…

I Qualcuno ha detto che in qualsiasi situazione la verità non è che un consenso di opinioni. Di tutto, o quasi, si può dire tutto e il suo contrario e sostenere efficacemente una tesi o il suo opposto con valide argomentazioni. Pertanto ognuno dice la propria verità e deve essere convinto che quella dell’avversario può essere altrettanto valida. Il progresso, che corra lento o veloce, si ferma, come concetto, sempre “allo stato attuale delle nostre conoscenze”. E’ una verità provvisoria. Anche dell’amore si dice che sia “un’eternità provvisoria”. Le parole che usiamo sono legate alle definizioni dei vocabolari, ma hanno un riscontro personale, nelle nostre convinzioni e nel nostro vissuto. Illustrano concetti che possono essere o non essere condivisi.

II La disabilità è da intendersi come la capacità di possedere un’altra abilità. Nel corpo e/o nello spirito. Un’abilità che si distingue da quella comunemente intesa per i cosiddetti normali. La normalità non esiste. L’essere “felici” o il sentirsi realizzati è relativo alle singole persone e dipende da quella completezza di corpo e spirito così come la intende la concezione olistica della vita. E’ l’unitarietà del nostro essere che conta, l’equilibrio che ognuno si crea. Nessuna importanza hanno le etichette che i depositari della scienza spalmano qua e là, su chi ha qualcosa che non va. La dislessia, per esempio, è un grave problema per taluni genitori di bambini che la possiedono, ma ben si sa che grandi personaggi della storia erano dislessici, a partire da Michelangelo, Leonardo da Vinci, Einstein, per non finire più. Alessandro Magno, che a 33 anni aveva conquistato un impero immenso ed era dotato di immenso carisma, era epilettico e così pure Giulio Cesare. Spesso al concetto di disabilità si associa quello di dipendenza. E nei momenti gravi della vita tutti possiamo dover dipendere da qualcuno o da qualcosa: medici del corpo, medici dell’anima (è paradossale che si faccia differenza in questo), stati d’animo, respiratori automatici, sabbie mobili dell’inconscio. Il cosiddetto “disabile” e il cosiddetto “normale” talora dipendono da altri o da loro medesimi. In contrapposizione ai disabili ci sarebbero i sani, intesi statisticamente come una maggioranza che è e si comporta in una certa maniera. I sani sono dunque gli altri. Altri che, da quando esiste la storia dell’uomo, sopraffanno, violentano e uccidono quotidianamente in una follia collettiva. Questi sono i normali. Mentre un Down, che non viene chiamato ad uccidere sotto l’egida di nessun esercito, è un diverso. Alcuni genitori (quanta sopravvalutazione si dà talvolta a una condizione che è spesso casuale!) non vogliono far vaccinare i propri figli per via delle possibili complicanze (1 caso su 1 milione di vaccinati per la poliomielite), ma trasportano in automobile i bambini, fin dalla più tenera età, esponendoli a rischi numericamente ben più pesanti. Si vive nel paradosso (e questo articolo ne è un esempio!) e nelle contraddizioni, influenzati dai mass-media, lontani da ogni forma di vita semplice. Le differenze tra popolazioni sono sempre più profonde. C’è un quadretto appeso a una parete del mio studio (bianchi e azzurri i colori): raffigura un bambino “nero”, di 5 o 6 anni di età, che alla domanda “che cosa sogni di essere da grande” risponde “alive” (vivo). La sua aspettativa di vita è circa 35 anni, come ai tempi degli antichi romani. Noi, fra gioie, dolori, sogni, speranze, malattie, prevenzioni, pillole, corriamo (letteralmente), in ansia perenne, verso la nostra fine, che è collocata mediamente, come aspettativa, attorno agli 80 anni. Noi, coi nostri disabili e i nostri handicappati, i nostri pregiudizi e la nostra insofferenza verso il flusso dei migranti, che “pretendono” di mangiare tutti i giorni e di non morire di morbillo o tbc.

III Qualcuno ha scritto che la salute è la vita nel silenzio degli organi. Noi cioè stiamo bene se il nostro corpo non ci manda messaggi dolorosi. Ma altrettanto si potrebbe dire per quelli inviati dal nostro spirito. O meglio da entrambi, corpo e spirito, indissolubilmente legati sotto forma di uomo, un uomo a cui ci rivolgiamo chiamandolo con un nome proprio.

IV E quando, nell’ora del tramonto estivo, mentre l’aria imbrunisce, cominciano ad aleggiare dentro di me quelle che Benedetto Croce chiamava “le alte malinconie dello spirito”, ripenso all’unicità della vita di ogni uomo, al suo valore irripetibile, al rispetto che si deve ad ognuno, indipendentemente da qualsiasi condizione che lo faccia apparire un “diverso”. Ripenso alla mia vita, al percorso che ho seguito e che mi ha portato al luogo in cui mi trovo, all’età che ho, a quella che mi sembra di avere o di meritare. E me ne vado sul veliero del tempo, indietro, fino a quando pensavo di poter essere felice perché ero un feto.

V Vivevo forse in un limbo, ma da sempre avevo segnali di malessere. Capivo che i sintomi di qualcosa che spezzava la mia apparente armonia erano messaggi preziosi da cogliere e collocare dentro di me come occasioni di crescita. Comprendevo che non può esistere evoluzione senza sofferenza e che questa può divenire, se si hanno gli strumenti per ben intenderla, una gioia profonda. Ricordo bene quando vivevo all’interno di quel palazzo roseo e quieto, in una penombra squarciata da lampi di luce improvvisa, in quel silenzio rotto da suoni a volte dolci e melodiosi, a volte penetranti e dolorosi. Sapevo di dipendere da quel tubicino con una vena centrale e due arterie che mi univa a mia madre (che io non potevo vedere mai) e sapevo che se lei avesse voluto io avrei potuto morire. Esiste una condizione di dipendenza più forte? Eppure tutte le persone che si complimentavano (ma perché?) con mia madre (la mia mamma!) parlavano di me come se non fossi un disabile, ma un “normale”. Ero felice di avere una mente che captava sia il mondo all’interno della mamma, sia la cosiddetta realtà esterna e che capiva anche la mia infelicità. E poi mi rendevo conto di possedere un corpo (tentarono anche di pungermelo, la chiamavano “amniocentesi”). Avevo appreso che gli uomini distinguono un corpo e uno spirito e che se il corpo muore lo spirito va altrove. E se muore lo spirito che ne è del corpo? Compativo gli uomini. Li compativo per la loro sicurezza e la loro arroganza intellettuale. Mia madre, una madre ormai attempata per concepire (aveva 37 anni la mia mamma), leggeva molto e consultava spesso il dizionario, perché amava la precisione e l’oggettività. Sapevo perciò che lo Zingarelli, edizione 1999, così definiva la parola “soma”: “nella religione antica indiana, succo di una pianta usata sacralmente e capace di conferire la comunicazione col divino”. Capivo dunque che il mio piccolo corpo-soma, quasi un ectoplasma la cui immagine mi veniva sottratta con le ecografie, era un nucleo di spirito solidificato e concentrato e che mi permetteva di parlare con Dio, qualsiasi forma Egli fosse, sotto qualsiasi forma io apparissi. Io feto, normale e diverso, ma sempre dipendente.

VI Quanti concetti errati ho sentito esprimere da coloro che parlavano con mia madre, quanti passaggi erronei ho letto nei suoi pensieri. Io, feto non per mia volontà, venivo collocato sotto la dicitura “simbiosi materno- fetale” e notavo che tutti attribuivano a questo concetto un valore positivo e se ne rallegravano. Per me significava dipendenza e sofferenza. Io, che vedevo la fatica di mia madre a portarsi dietro un peso che cresceva ogni giorno, le sue gambe gonfie, il suo respiro affaticato, i suoi momenti di scoraggiamento, l’attesa gioiosa di farmi venire alla luce (io amo la penombra!) e insieme il dolore di separarsi da me, la riconoscenza per me perché facevo sì che si realizzasse come madre e insieme il rancore non conscio e inespresso perché la privavo di molte libertà e l’avrei poi tenuta impegnata per decenni, io, ripeto, povero feto che nulla avevo potuto determinare, mi chiedevo perché questo vivere insieme (sun-bios vita insieme) coercitivo e mai concordato fosse una condizione così positiva. Io e mia madre così dipendenti l’uno dall’altra, due “disabili”. Io, obbligato a crescere, a crescere dentro un involucro, sapendo che ne sarei uscito con sofferenza, tra le lacrime, senza avere potuto né scegliere e nemmeno discutere. Sapeva il mondo esterno come si fatica a dipendere? Pensate al liquido amniotico che dovevo per forza bere ogni giorno, un litro e mezzo circa, assorbire con la cute, respirare, introducendo nei polmoni 20 o 30 millilitri ogni 20 minuti, più di giorno che di notte. L’ambiente in cui vivevo era sterile, ma vivere senza pericoli è un vantaggio? Il liquido amniotico era tiepido- caldo (37°,5 C), (ma io amavo il fresco delle vette), era dolce (ma perché mi doveva piacere a tutti i costi il sapore dolce?), cambiava talora sapore quando mia madre variava i cibi, era bagnato (e io amavo l’asciutto e il sole tiepido che intravedevo fuori). Ho sempre dovuto subire: - dapprima quel fenomeno di modellamento affettivo che inizia nell’utero e che all’esterno chiamano imprinting; - poi, fin dalla 8a - 9a settimana, ho dovuto affrontare quelle che vengono definite le sensorialità, chimica (gusto - olfatto), tattile, vestibolare, uditiva, visiva; - infine hanno applicato su di me, per le loro sperimentazioni e i conseguenti articoletti sulle loro riviste, la scienza del tatto (aptomania), mi hanno massaggiato (io che amo stare fermo e in pace) attraverso la parete uterina e io rispondevo per forza con movimenti. Rispondevo e soffrivo, ma all’esterno dicevano che rispondendo sapevo di non essere solo. Mi sono sempre chiesto se sia meglio la solitudine o lo stare con gli altri. Altri che sono condizione per la violenza, l’aggressività e le guerre. Smettete di occuparvi di me!

VII Sapete cosa vuol dire essere così dipendenti? Avere proprie abilità e desideri che gli altri piegano a proprio vantaggio in modo da sembrare “normali”?

VIII Mai mia madre ha pensato che, essendo io obbligatoriamente interattivo, man mano che mi formavo dovevo rispondere non solo ai suoi stimoli fisici, ma anche a quelli psichici, suoi e del suo ambiente, veicolati da canali sensoriali, muscolari e umorali: suoni, movimenti, rapporti sociali e culturali. Perfino il grande Freud si era scomodato per me e mi attribuiva “sensazioni oceaniche senza tempo, né spazio”. Io invece vivevo il mio tempo nel tempo materno e di spazio ne avevo veramente poco, perennemente sballottato dal liquido che mi circondava. E’ vero mi impediva di farmi male, ma quale crescita ci si può prospettare senza dolore? Di me dicevano che vedevo, sentivo, mi muovevo, sbadigliavo, calciavo, mi succhiavo le dita, anche quelle dei piedi, partecipavo alle emozioni materne. Ma dovevo ben far qualcosa per sopportare una prigionia così prolungata. Quale meraviglia poi perché avevo memoria a breve termine (abituazione) e a lungo termine (avrei ricordato anche dopo molto tempo le sensazioni provate in utero). Come venivo studiato e colmato di attenzioni, quale stupore perché dormivo e sognavo! Ma forse non ha già scritto Calderòn de la Barca “la vida es sueño y sueños sueños son” (la vita è sogno e i sogni sono nient’altro che sogni).

IX E poi, dopo aver disturbato per 9 mesi la mia pace, qualcuno o qualcosa, Dio, il destino, la “fisiologia”, improvvisamente ha inflitto dolori indicibili a mia madre (“donna tu partorirai con dolore”), povera donna incolpevole di dover riprodurre la specie umana. E anzi per questo indotta a sentirsi gratificata. Le sue carni si sono allargate e io sono stato spinto fuori. Sono stato accolto da rumori insopportabili e luci violente, freddo e acqua, schiaffeggiato e sculacciato, hanno tagliato il cordone che mi nutriva a forza e riportava alla madre i miei veleni. Mi sono sentito soffocare.

X Tutti erano felici perché ero nato. Io sapevo che per un anno sarei stato ancora fortemente dipendente, un disabile. E sapevo anche che avrei dovuto cercare nella mia dignità personale la spinta per vivere, sapendo che il traguardo finale non può essere che il morire. E allora ho pianto. E periodicamente ho sempre continuato a piangere in attesa di quel momento così misterioso in cui non sarò più dipendente da nessuno, non sarò più un disabile, non piangerò mai più.

 
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A cura di:
Giuseppe Baroncelli
Responsabile del Programma Pediatria
A.USL Ravenna
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