E’ noto come il termine
“dolore”, sebbene si riferisca ad una esperienza
molto comune per ciascuno di noi, sia molto difficile
da definire e classificare dal momento che esso può
sempre essere diversamente interpretato in relazione alla
prospettiva dalla quale viene osservato.
Sta sempre più evidentemente assumendo un posto
centrale nella valutazione dello stato di salute di ogni
persona e delle popolazioni nel loro complesso, indipendentemente
dalle molteplici cause originarie, per evidenti rapporti
negativi che si possono realizzare con l’autonomia
e l’autosufficienza. Per ogni persona, in tutte
le età e in tutte le condizioni funzionali la presenza
di dolore diventa di per sè condizione determinante
e spesso prevalente rispetto alla qualità della
vita, alla condizione di integrazione familiare e sociale,
alle condizioni affettive e psicologiche.
Una definizione che posso utilizzare come utile paradigma
è forse quella della Enciclopedia Italiana Treccani:
“Sensazione particolare per la quale la coscienza
è avvertita che agenti dannosi o stimoli in qualche
modo eccessivi colpiscono il corpo, o che una funzione
di questo è turbata” (Fig. 1).
Questa definizione peraltro mette in luce alcuni aspetti
sempre più importanti nell’approccio al dolore,
al suo trattamento ed anche alla valutazione delle sue
conseguenze sia sul piano soggettivo che su quello comunitario:
mette l’accento infatti sulla parola sensazione
e sulla parola funzione.
Sul piano poi delle Classificazioni il paradigma più
accessibile può essere quello della topografia
del corpo umano per definire i diversi dolori che si presentano.
Ed infine la distinzione tra acuto e cronico che rappresenta
un carattere determinante e talvolta fortemente utile
per una valutazione diagnostica ed eziopatologica rispetto
ai fattori causali.
E’ però da sottolineare l’importanza
che la definizione dà ai termini “sensazione”
e “funzione”: infatti sappiamo come la soggettività
nel definire e riconoscere il dolore sia profondamente
mutata con il passare degli anni: già la nostra
generazione soffre di dolori che la generazione precedente
non avrebbe definito così, nè avrebbe ritenuto
importanti le alterazioni funzionali che tali manifestazioni
originano (o ad esse si accompagnano).
Non è questa una modificazione che riguarda alcune
persone o alcuni Paesi, ma si presenta come una tendenza
costante e diffusa, in atto praticamente ovunque nel mondo,
in relazione solo al progressivo modificarsi dei parametri
di giudizio soggettivo ed individuale della qualità
di vita e della salute.
In fondo la stessa definizione di salute dell’OMS
rappresenta la sorgente di questa “sensazione”
di dolore che muta e si espande sempre più.
Una sensazione che oramai è divenuta la motivazione
della gran parte della domanda di cure, sia farmacologiche
che di altro genere nella medicina basata sull’evidenza
(ed in particolare fisioterapiche, cinesiterapiche, ma
anche chirurgiche o psicologiche ); una sensazione che
sempre più provoca l’espansione della domanda
anche di altri trattamenti non basati sull’evidenza
scientifica e che possono esser talvolta di sollievo,
di integrazione o di semplice soddisfazione soggettiva.
Infatti è molto spesso utilizzata (ed adeguata
senza dubbio) anche la nota definizione di Berkow che
definì il dolore molto semplicemente e pragmaticamente
come “il sintomo per cui più comunemente
i pazienti si rivolgono ai medici!”.
Questo sintomo è nella grande maggioranza dei casi
legato al dolore osteo-articolare che rappresenta senza
dubbio la gran parte del problema “dolore”,
soprattutto nella sua forma cronica che determina poi
lo svilupparsi di una manifestazione di dolore-malattia.
Il
Dolore Osteo-articolare
E’ presente praticamente in tutte le possibili
localizzazioni del corpo umano, anche se è noto
come alcune localizzazioni (come il rachide cervicale,
il rachide lombo-sacrale, le articolazioni degli arti,
le mani e le estremità inferiori) siano maggiormente
rilevanti come frequenza e come importanza.
Nelle manifestazioni acute rappresenta al tempo stesso
sia il sintomo principale, sia il principale fattore
di indicazione per la diagnosi e l’intervento
curativo: per questi stessi motivi quasi sempre, se
tempestivamente preso in considerazione, può
essere altrettanto velocemente eliminato con l’eliminazione
della condizione patologica sottostante.
Nella pratica non sempre questa affermazione si concretizza:
la causa è purtroppo l’attenzione non sempre
tempestiva con la quale il soggetto, ed anche il medico,
prendono cura del sintomo e si adoperano ad eliminarlo
con interventi farmacologici, funzionali, posturali
e motori. Ciò fa si che la causa patologica originaria
possa progressivamente cronicizzarsi; peraltro tale
tendenza alla cronicizzazione è per molti versi
facilmente manifesta nella storia naturale di queste
patologie per fattori biologici, biomeccanici e dell’invecchiamento
a carico delle strutture muscolari, articolari ed ossee.
Sul piano clinico prevale l’interesse alla diagnosi
della patologia, mantenendo il dolore nel proprio ruolo
di sintomo; in realtà sono sempre più
numerosi i casi di dolore divenuto cronico, complesso
ed autonomo dalla stessa patologia. Se vogliamo concentrarci
sul solo dolore, un pò genericamente e per grande
sintesi, possiamo affermare che il sintomo dolore si
esprime all’interno della popolazione affetta
da patologie osteoarticolari con una prevalenza vicina
al 100%.
Però questa semplicità, che mira solo
a sottolineare la grande diffusione del problema, non
ci deve consigliare di affrontare con analoga semplicità
invece le problematiche delle diverse funzioni alterate
in rapporto a questo sintomo (a prescindere dalla tipologia
di rapporto che lega la patologia, il dolore e l’alterazione
di attività e/o di performance).
Sono infatti queste alterazioni funzionali che innescano,
mantengono ed aggravano molto spesso la “sensazione”
e che la fanno trasformare in vera e propria malattia.
Una malattia che si rende autonoma dalla primaria causa
fisiopatologica, che viene percepita come tale dal soggetto,
ma parimenti anche dalla comunità; infatti le
alterazioni funzionali, trasformandosi in limitazioni
della partecipazione e della autonomia, lo fanno sempre
meglio riconoscere come “malato”.
Tuttavia non dobbiamo commettere il gravissimo errore
di pensare ad alterazioni funzionali che si possano
sempre collegare alla sede topografica, alla noxa patologica
che sottende il dolore.
Infatti due sono i motivi per i quali dobbiamo evitare
questo errore: il primo è la complessità
ed al tempo stesso grande unitarietà di quel
sistema cinematico che è il nostro apparato muscolo-scheletrico
(fig. 2).
Sappiamo infatti come questa unitarietà
funzionale debba servire ad interpretare con altrettanta
visione globale un dolore: se si manifesta ad un livello
della “catena” non necessariamente lì
può essere individuata la causa. Ed ancora e
viceversa una alterazione, un dolore anche apparentemente
banale in una sede anche “periferica” molto
spesso genera una alterazione delle catene posturali
e dinamiche che si ripercuotono a distanza in modi spesso
molto più complessi ed importanti. Il secondo
è la forte dipendenza della nostra performance
dalla domanda sempre crescente che viene rivolta al
nostro apparato muscolo-scheletrico per esser adeguato
alle esigenze non solo in termini di forza, ma in termini
di rapidità e contemporaneità. Esigenze
che nella quotidianità sappiamo come siano cresciute
per tutte le fasce di età e per tutte le posizioni
sociali indistintamente.
Dolore, autonomia ed autosufficienza personale
Queste considerazioni sono orientate a sottolineare
l’importanza sia della valutazione del dolore
e delle sue conseguenze (potremmo usare il termine Burden
inteso come “peso” del dolore), sia la presa
in carico complessiva di queste manifestazioni. Infatti
molto forte è l’impatto di tutto ciò
sullo stato di salute sia degli individui che della
popolazione nel suo complesso: basti pensare non tanto
ai consumi di prestazioni o di farmaci, ma piuttosto
alle giornate di assenza dal lavoro, alla percentuale
di disabilità transitoria o permanente, quindi
alla ricchezza non prodotta ma invece consumata.
Per dolore cronico si intende una sindrome che, indipendentemente
dalle cause patologiche, produce alla persona dolore
per almeno tre mesi nell’arco dei sei mesi precedenti
di vita: non si definisce in rapporto alla intensità
nè alla sede dello stesso dolore. Viceversa il
dolore cronico può esser caratterizzato dal livello
di intensità, dalla localizzazione, dalla ciclicità
temporale nella giornata, dal suo eventuale rapporto
con il movimento o con altre attività.
Tale condizione di dolore cronico, sulla scorta di alcuni
studi recentissimi realizzati in Europa ed in Australia
su casistiche molto vaste, che vanno a confermare nei
fatti i dati precedenti degli USA, può esser
indicato come presente in circa un quinto degli adulti;
in particolare ci sono dati sempre più convergenti
che per quanto concerne il sesso femminile descrivono
il dolore cronico presente in un terzo delle donne dedite
alle attività di casa. Tutto ciò indipendentemente
dai diversi Paesi e dalle società e dalla loro
organizzazione economica, anche se emergono alcune differenze
statistiche che meritano di esser approfondite: ad es.
la Spagna denuncia una percentuale dell’11% degli
adulti rispetto alla Norvegia, Polonia ed Italia che
invece denunciano una percentuale attorno al 25%.
Un grande studio Europeo (Pain in Europe) sta cominciando
ad indagare i rapporti tra questa condizione cronica
e le condizioni di vita, soggettive ed oggettive, delle
persone colpite.
Appaiono indicazioni importanti e molto gravi: il 22%
dei soggetti dichiara di avere diagnosticata anche una
sindrome depressiva, il 17% dichiara di aver perso il
proprio lavoro ed un altro 22% dichiara di averlo dovuto
modificare perdendo delle responsabilità e competenze
acquisite precedentemente.
(fig. 3)
(fig. 4)
(fig. 5)
(fig. 6)
Ed inoltre purtroppo ben il 55% dei soggetti studiati
in questo lavoro in Italia dichiara di non aver potuto
ottenere una analgesia adeguata a modificare in meglio
le condizioni di dolore e di conseguenze disfunzionali
sopra indicate.
In tal senso, per meglio definire ed approfondire questi
dati preliminari che denunciano una enorme gravità
del problema, appare veramente interessante analizzare
anche i dati che emergono da una linea di ricerca internazionale,
promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
utilizzando gli strumenti derivati da ICF (figg. 3,
4, 5 ,6 e 7) che sono cioè ICF Ceck List ed ICF
Core Set.
Questa ricerca appunto è finalizzata a raccogliere
dati sull’impatto che alcune affezioni possono
produrre non solo sulle strutture e sulle funzioni del
corpo, ma anche sulle attività, sulle capacità
esecutive e funzionali e sul rapporto dell’individuo
con il contesto della comunità in cui vive. Queste
affezioni sono state inizialmente scelte nello Stroke,
l’Osteoporosi, il Dolore Cronico e la Broncopatia
Cronica Ostruttiva. Si comprende quindi già dall’impostazione
che ha questo studio fondato su ICF, che il dolore cronico
è preso in considerazione, al pari delle altre
affezioni, come una vera e propria malattia in quanto
tale.
Peraltro negli ultimi anni anche sul piano della ricerca
epidemiologica si sta manifestando una tendenza (appunto
lo studio Pain in Europe prima citato ne è un
forte esempio) in tale direzione. Infatti nel mondo
sanitario è sempre più evidente il fatto
che dobbiamo prima sottolineare ed illuminare le dimensioni
complessive del problema, per poter poi avere a disposizione
le risorse cliniche (valutative, terapeutiche, riabilitative,
assistenziali etc.) che possano adeguatamente far fronte
ad un problema di questa gravità e vastità.
Tali risorse cliniche dipendono primariamente dalla
presa in seria considerazione da parte di tutta la comunità
(e dei “decisori” dell’informazione
diffusa, della cultura e della politica) della priorità
del problema: solo così possono (giustamente)
essere mobilitate le risorse finanziarie ed organizzative
necessarie.
Questo è forse l’unico modo per ribaltare
la tradizionale sottovalutazione (e nel nostro Paese
presente in modo particolare) sia in termini valutativi
che più ancora di trattamento, che i soggetti
colpiti da sindromi dolorose hanno patito da sempre
sulla loro pelle. Lampante in tal senso è la
ridottissima presenza dell’utilizzo in Italia,
ma anche in altri Paesi anche se in modo minore, dei
prodotti oppiacei nel trattamento antalgico prescritto
e la persistente discussione sulla opportunità
di superare finalmente questi preconcetti.
(fig. 7)
Basti pensare che un Paese a noi vicino come l’Austria
ha un dato di milligrammi di morfina utilizzata pro-capite
di 114 e l’Italia invece solo di 4, mentre la
media europea è di ben 34 milligrammi pro-capite.
Ma per ritornare alle considerazioni in generale sull’impatto
del dolore cronico sull’autonomia e sulla qualità
della vita, molto significativi sono i dati che emergono
da questi studi per gli aspetti relativi al dolore,
che si manifesta come molto più complesso, impegnativo
per “functioning and health” della persona
colpita rispetto a tutte le altre affezioni. Si manifestano
inoltre, accanto a tutti i noti problemi attesi, anche
aspetti nuovi e finora non valutati. Cioè siamo
in grado di leggere in trasparenza l’impatto del
dolore correlato anche alle altre affezioni per comprendere
da questi diversificati punti di osservazione, la presenza
e l’importanza della manifestazione dolorosa.
Ad esempio, siamo in grado di capire come l’osteoporosi
intervenga a modificare alcuni parametri essenziali
della qualità di vita, ed in questa trasformazione
quale sia il ruolo del dolore cronico provocato. Analizzando
invece gli stessi dati, seguendo le interrelazioni tra
la condizione patologica specifica di dolore cronico
ed i diversi campi di indagine (strutture corporee,
funzioni corporee, attività, partecipazione,
barriere e facilitatori ambientali) si rileva ad es.
un grande impatto rispetto non solo ad aspetti delle
strutture corporee come funzionalità articolare,
tono e forza muscolare, ma anche rispetto alla possibilità
di riposare, di svolgere un lavoro remunerativo, di
mantenere efficaci relazioni familiari ed utilizzare
mezzi di trasporto. Ed ancora, il soggetto in condizione
di dolore cronico segnala di avere grandi problemi con
il clima e con l’efficienza dei sistemi di supporto
sanitario e sociale nella comunità.
In conclusione, credo si possa affermare che il dolore
osteo-articolare ed in particolare nella forma cronica
nella sua complessità sia qualitativa che quantitativa
(e per l’impatto multiforme che produce sulle
condizioni di salute dell’individuo ma anche della
comunità nel suo complesso), merita una presa
in carico sufficientemente articolata e ampia: si pone
infatti il problema da un lato di garantire gli strumenti
più efficaci per il controllo del sintomo in
se, ma contemporaneamente dall’altro di garantire
l’accurata valutazione del complesso delle alterazioni
di attività e di performance sociale derivanti
e connesse, per sostenere il soggetto nel percorso di
reale recupero che possa coronare e mantenere l’efficacia
del trattamento (qualunque esso sia stato).
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