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Copertina della rivista

Immagine: Grafica Divulgare è un'arte

La divulgazione è una delle più difficili arti del mondo intellettuale. Per praticarla, bisogna avere sia solide conoscenze che un certo gusto.




Si potrebbe usare questo nuovo slogan: “Dello scienziato è il fin la meraviglia” se, alla fine, non fosse in realtà, quasi denigratorio. Infatti, il problema di chi lavora in ambito scientifico non è certo quello di sbalordire: saremmo assai più contenti se ciò che diciamo producesse “conoscenza affidabile”, cioè capacità di valutazione autonoma della veridicità e dell’importanza, che non è lo stesso di “competenza” (parola troppo impegnativa). Ciò non toglie che la “meraviglia” finisca con il corrompere lo scrittore per il grosso pubblico e che, perciò, il divulgatore faccia leva con metafore più o meno accettabili su: 
1) la curiosità, nel migliore dei casi, 
2) la paura, nel peggiore. Ad esempio, la curiosità funziona benissimo quando si prospettano nuove mirabolanti terapie per i mali più probabili di cui moriamo; la paura funziona altrettanto bene quando si nominano agenti invisibili come la radioattività. Ma gli effetti sociali non si possono chiamare onestamente “culturali”.
La divulgazione è, a mio parere, una delle più difficili arti del mondo intellettuale.

La cultura scientifica non si è allontanata dal discorso comune solo per lo stile e per le invenzioni del suo linguaggio, ma soprattutto per i nessi che ha stabilito tra certe strutture operative del pensiero e la realtà naturale. Questi nessi, a volte correlazioni non banali, a volte relazioni di causa ed effetto, a volte ancora identificazioni di processi invisibili, producono nella testa dello scienziato rappresentazioni mentali che sono veri e propri simulacri della realtà naturale depurati da ogni inutile complessità, da ridondanze e da elementi irrilevanti. E’ solo grazie alla padronanza di questi simulacri e del linguaggio formale che li fa funzionare simulando, nella mente del ricercatore, la loro evoluzione, che il sapere scientifico produce risultati. Spesso, con sorpresa dello stesso esperto: l’equivalenza massa-energia, l’esistenza dell’antimateria, il codice biologico iscritto nel DNA, il comportamento dei polimeri non sono frutto di semplice contemplazione ammirata della natura. Trasferire a chi non possiede i linguaggi formali appropriati una adeguata percezione di ciò che questo significa è una impresa che appare spesso al limite delle possibilità di comunicazione.

Uno dei problemi nasce dal fatto che le scienze contemporanee sembrano vivere esclusivamente nel presente: in un certo senso, cancellano rapidamente la propria storia. Che però non ha soltanto idee di cui “vergognarsi”: certo, c’è un abisso tra il chimico di oggi e l’alchimista, tra il fisico post-galileiano e quello aristotelico, tra il genetista e il fautore della generazione spontanea, tra il cosmologo einsteiniano e il tolemaico. Ma spesso si dimentica che le idee di senso comune della gente non acculturata sono ancora esattamente quelle dell’antichità; e che mostrare le ragioni dell’evoluzione culturale da quelle idee alle attuali può essere utile a motivare queste ultime, che potrebbero apparire innaturali. Per questo motivo, mi sono convinto del fatto che la storia della scienza sia uno strumento indispensabile alla cosiddetta divulgazione.

Questa osservazione, in realtà, si adatta assai bene anche alla didattica nelle scuole primarie e secondarie. In quel caso, oltre agli strumenti cartacei si possono opportunamente introdurre esperimenti adeguati alla percezione diretta di fenomenologie eccezionali: con i giovani, bambini e adolescenti, tutto ciò è indubbiamente più facile. Il vero problema resta la divulgazione indirizzata agli adulti, perché spesso l’obiettivo vero, che però non appare, consiste nel “violare” pregiudizi e fraintendimenti fortemente radicati. A titolo di esempio, si pensi a quanto è difficile “dimostrare” che la probabilità che venga estratto un numero che “ritarda” nel gioco del lotto non è diversa da quella di estrarre qualunque altro numero. Migliaia di persone buttano il loro denaro in questa sciocchezza a dispetto di ogni razionalità. A questo proposito, bisogna dire che la scienza fatica a scrollarsi di dosso un pregiudizio che forse nasce dall’errore di essersi chiamata spesso “esatta”: è il pregiudizio “deterministico”. Ciò che è solo probabile, appare a molti non-scientifico. Da qui, tutti i guai legati alla “paura delle tecnologie”: non esistono tecnologie a rischio nullo, come la gente vorrebbe; ma il problema scientifico è proprio quello di valutare il rapporto rischi/benefici, su cui si fonda la strategia delle scelte e il concetto razionale di decisione.

Insomma, non ho ricette semplici per una buona divulgazione: benché “scientifica”, in realtà è un’arte, come ho già detto all’inizio. Per praticarla, bisogna avere sia solide conoscenze che un certo gusto, che non saprei definire. Posso dire che chi, invece di accontentarsi della divulgazione, studia i problemi della realtà naturale nella completezza della loro consistenza, a volte raggiunge stati di vera e propria emozione intellettuale, che non sembrano confrontabili con altre emozioni; così come capita ai “piaceri di cui non si ha precedente esperienza” (direbbe uno psicologo). Ma per questo è necessaria la ricchezza dello “studiare”.