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Copertina della rivista

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La scienza alla prova

Proprio perché la scienza è diventata pervasiva e dominante nella vita quotidiana dei cittadini, gli scienziati devono scoprire e accettare la sfida della complessità della comunicazione.

Mettere la scienza in cultura. Un compito arduo e non meno importante del dover accrescere i nostri saperi sull’Universo e sulle leggi che lo governano, nonché del migliorare costantemente l’efficacia pratica che da questi saperi può derivare.

Ma la complessità della situazione attuale fa sì che tale obiettivo non sia raggiungibile solo attraverso una diffusione delle conoscenze top-down, cioè da chi sa a chi non sa.

È necessario che l’ambiente scientifico sia capace di aprirsi a un dialogo e a un confronto con la società e si mostri capace di sintetizzare e concretizzare i suoi saperi profondi e dettagliati, ma parcellizzati, per dare risposte anche ai problemi che l’umanità si trova ad affrontare (le fonti energetiche, l’ambiente, la salute, l’alimentazione e la pace).

“La battaglia per rendere misurabile il cielo è stata vinta grazie al dubbio, la battaglia della massaia romana per il suo latte sarà ancora e sempre perduta a causa della credulità”. Sono le parole che Bertold Brecht fa dire ne “La Vita di Galileo” a un autocritico Galileo che assomiglia più a un ricercatore dei nostri tempi che a uno scienziato del XVII secolo. “Quando degli scienziati intimoriti da uomini di potere egoisti si accontentano di accumulare il sapere per il sapere, la scienza può trovarsene mutilata, e le vostre nuove macchine potrebbero significare solo tormenti. Scoprirete forse con il tempo tutto quello che si può scoprire, e il vostro progresso sarà tuttavia solo una progressione che vi allontanerà dall’umanità”. Come non prendere sul serio oggi questa supplica che ci ammonisce a non cadere nel mito di Prometeo alla meno uno, un Prometeo che venga incatenato dagli uomini per aver rivelato il segreto del fuoco agli dei. Sembra definitivamente finito per gli scienziati il tempo in cui si poteva ipotizzare, secondo le indicazioni del grande fisico teorico Paul Dirac, scopritore dell’antimateria, di non contaminarsi divulgando la scienza, di non sottoporla alla critica di un pubblico di inesperti.

Oggi comunicare la scienza è una necessità. Gli scienziati, volenti o nolenti nel loro lavoro quotidiano, a differenza di un passato neppure troppo lontano, sono costretti a interagire con una pluralità di gruppi e persone che si aspettano e inviano messaggi differenti dal e sul sistema scientifico. E non si può neanche pensare di delegare completamente a una classe di comunicatori schierati al fianco della comunità scientifica il compito di semplificare al meglio i risultati della ricerca per un pubblico percepito perlopiù come ignorante e indifferenziato. È diventato ormai inevitabile mettere la scienza alla prova: alla prova della società per rispondere ai perché della ricerca, alla prova della memoria per attribuire pari importanza al suo passato come al suo presente (“La storia della scienza è la scienza stessa - scriveva Goethe - Non possiamo sapere cosa possediamo finché non sappiamo cosa altri possedevano prima di noi”), alla prova della cultura per una critica della scienza stessa e alla prova del pensiero per una scienza della filosofia delle scienze. Negli anni, si sono sovrapposte diverse motivazioni per giustificare la comunicazione scientifica. Ragioni illuministiche, come educazione, alfabetizzazione e piena democraticità, sono andate di pari passo con giustificazioni strumentali, quali il reperimento delle risorse per la ricerca o l’incremento delle iscrizioni alle facoltà scientifiche, o addirittura il benessere nazionale ed economico; nel tempo si sono aggiunte ragioni “culturali”, come il piacere del sapere o la necessità di collocare la scienza all’interno della società.

Ogni paese che ha legato il suo sviluppo in modo significativo a scienza e tecnologia ha cercato di dare una risposta a queste domande con differenze che variano a seconda del significato attribuito alla scienza e in base al suo rapporto con la società.

Nelle pragmatiche società anglosassoni si è puntato su concetti quali l’alfabetizzazione scientifica o il Public Understanding of Science (PUS); in Francia si è promossa maggiormente la “culture scientifique”, finalizzata più a una familiarizzazione con la scienza piuttosto che alla comprensione dei concetti; in Germania la scienza è tutto ciò che si riferisce alla sistematica indagine della natura e della società, per cui la divisione tra scienze dure, scienze della vita, discipline umanistiche è diversamente applicata.

Ha prevalso però a livello internazionale l’impostazione anglosassone, anche se elementi di modelli diversi si sovrappongono e coesistono tra di loro. Secondo questo modello lo scienziato è il solo a poter rivendicare il ruolo dell’esperto su temi controversi che riguardano l’impatto della scienza sulla società. In questo modello l’importanza e il valore della conoscenza scientifica possono essere trasmesse attraverso campagne informative/ educative il cui scopo fondamentale è quello di riempire il gap: la comprensione della scienza può essere raggiunta aumentando il livello di alfabetizzazione scientifica del pubblico. L’ignoranza è il maggior imputato, la causa del distacco e della paura: se si conosce il significato di genoma o di DNA, allora non si potrà che essere a favore delle biotecnologie. Comunicazione della scienza quindi come traduzione per un pubblico il più ampio possibile. Seguendo le prescrizioni di questo modello sono stati investiti ingenti risorse su scala locale, nazionale e internazionale, tanto che si è parlato di una vera e propria “industria” del PUS.

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Con quali risultati dopo quasi trent’anni di attività? A partire dagli anni ‘70 sono stati costruiti degli strumenti d’indagine per misurare su ampi strati di popolazione l’evoluzione del livello di alfabetizzazione scientifica in risposta alle campagne di comunicazione della scienza. Le indagini sono iniziate prima in USA e in Gran Bretagna, per poi diffondersi in Europa e in generale nel mondo industrializzato e, più recentemente, anche in paesi emergenti come il Brasile e la Cina. Secondo queste inchieste l’alfabetizzazione scientifica, un concetto peraltro nebuloso sulla cui validità gli studiosi dibattono ancora, non è aumentata sensibilmente. Inoltre, le indagini hanno messo in luce un’altra ingenuità dell’impostazione pedagogico-educativa della comunicazione scientifica: l’idea che una maggiore alfabetizzazione scientifica corrisponda necessariamente a un maggiore apprezzamento e sostegno nei confronti di scienza e tecnologia. In ambito europeo, lo strumento d’inchiesta sociale per eccellenza, l’Eurobarometro, ha mostrato che i paesi nordeuropei sono i più alfabetizzati ma anche i più cauti nei confronti di scienza e tecnologia, mentre gli italiani sono tra i più favorevoli in Europa all’uso della genetica. La storia, la filosofia, la sociologia della scienza e altre discipline dei cosiddetti science studies hanno dimostrato negli ultimi anni come il rapporto fra scienza e pubblico e il ruolo della comunicazione sia molto più complesso di quanto gli scienziati e i politici potessero immaginare.

Non è un caso che la comunicazione della scienza sia diventata ormai un campo di studi autonomo, se non proprio una nuova disciplina accademica, in cui confluiscono teorie, concetti e pratiche di ricerca provenienti da discipline che vanno dall’antropologia agli studi sulla comunicazione, dall’economia alla fisica, dalla chimica alla biologia. Si è compreso che le barriere di comunicazione fra scienziati e cittadini sono di una complessità maggiore di quanto presupposto dai fautori del modello lineare top-down ma dipendono da fattori educativi, sociali, pratici, culturali. La complessità aumenta notevolmente quando la scienza entra nella sfera pubblica nell’ambito delle controversie.

Le persone vivono e sperimentano la scienza attraverso relazioni sociali e il nodo del problema del rapporto tra scienza e società non è solo la mancanza di conoscenza, ma quella di fiducia nei confronti del sistema scientifico e degli scienziati. E la fiducia si conquista attraverso il dialogo, la partecipazione, la cooperazione: parole che sono quasi diventate uno slogan anche nella strategia politica comunitaria, se è vero che l’Unione Europea considera il “Dialogo fra Scienza e Società” uno dei punti imprescindibili per la costruzione della spazio europeo della ricerca. Questo dialogo deve ovviamente coinvolgere tutti gli attori sociali chiamati a risolvere i problemi legati allo sviluppo e all’impatto sociale della scienza. E sicuramente deve coinvolgere gli scienziati, che se vogliono conservare il loro ruolo nella società e la loro legittima autonomia, sono invitati a partecipare attivamente al dibattito e alla contestazione confrontandosi nelle arene pubbliche alla pari degli altri interlocutori.

In altre parole una maggiore consapevolezza pubblica dell’importanza della scienza e tecnologia non si raggiunge solo con la promozione e l’informazione. In conclusione, i temi legati alla comunicazione pubblica dovrebbero far parte delle formazione dei giovani ricercatori ed essere patrimonio degli scienziati senza la pretesa che esista un legame deterministico fra le attività di comunicazione e il ruolo che la scienza riveste nella società. Non esistono best practices comunicative universali ed esportabili. Uno dei grossi errori dei modelli lineari della comunicazione scientifica è stato quello di credere che ci fossero degli standard validi universalmente. Non è così. Proprio perché la scienza è diventata pervasiva e dominante nella vita quotidiana dei cittadini, gli scienziati devono scoprire e accettare la sfida della complessità della comunicazione.