Fino a pochi anni fa, era abbastanza
semplice spiegare cosa volesse dire fare
il ricercatore o, almeno, era abbastanza
semplice per chi lo sapeva fare. Il
ricercatore era una persona (di norma
di sesso maschile ma c’erano eccezioni
importanti) che viveva una vita un pò
strana, fatta di andare in laboratorio
senza orari e in maniera totalmente o
quasi totalmente anarchica. La notte
che un coniuge svegliandosi non avesse
trovato la sua metà, probabilmente
si sarebbe preoccupato, ma non ci
sarebbe stato nulla di strano che uno si
fosse levato nel cuore della notte per
tornare in laboratorio (da dove era
probabilmente rientrato poco prima
di cena) perché, improvvisamente gli
era venuto in mente come fare il calcolo
sul quale inutilmente si era scornato
nelle ultime settimane.
Circolava una barzelletta su tre amici,
un avvocato, un medico e un fisico
che discutono su cosa sia meglio: una
moglie o un’amante. Una moglie, dice
l’avvocato, ti dà sicurezza ed è segno di
serietà nella società. Un’amante, dice il medico, ti dà prestigio agli occhi dei
colleghi e poi la cambi più facilmente.
Tutte e due, dice il fisico (ma poteva
anche essere un chimico, un matematico
ecc.): la moglie quando non ci sei
pensa che tu sia con l’amante e l’amante
pensa che tu sia con la moglie e
tu invece te ne stai tranquillo a fare
ricerca in laboratorio…
La ricerca era una delle due facce della
vita accademica, almeno nel mondo
scientifico. La ricerca scientifica è tuttavia
relativamente giovane.
A tutti gli
effetti nasce (“rinasce” forse è più
appropriato) con Galileo non più di
400 anni fa e da subito, con Galileo
stesso, si è fatta conoscere per una
qualità non sempre apprezzata e cioè
quella di proporre delle “verità”,
magari anche scomode, ma non
“negoziabili” (o almeno, che non
dovrebbero essere “negoziabili”).
Verità, poi, che bisogna anche essere
pronti a rivedere e a volte anche a
rovesciare quando l’evidenza sperimentale,
affinandosi i mezzi d’indagine,
lo richiedesse.
Il metodo scientifico che nasce,
appunto, con Galileo, richiede che da
un’osservazione, uno elabori una spiegazione
(una teoria) e che poi la verifichi.
Se la verifica ha successo, tutto
bene, se no si riparte da capo. Ma può
succedere che un secolo dopo (o
molto di meno), la verifica dimostri
limiti per cui bisogna ricominciare
tutto da capo un’altra volta.
Straordinario che, ad un’inchiesta fatta
tra i bambini di una terza elementare,
qualche anno fa, una bimba abbia
risposto alla domanda “chi è uno
scienziato” dicendo che “uno scienziato
è uno che si fa delle domande e
cerca le risposte alle sue domande”.
Se
avesse aggiunto “e poi verifica che le
sue risposte siano giuste”, avrebbe
dato la definizione di metodo scientifico.
È però anche vero che nella stessa
classe, un’altra risposta era stata
quella di un disegnino di un umanoide
verde con tre occhi e un paio di
antennine…
Paradigmatico è il caso della meccanica.
La teoria di Newton è stato uno
dei maggiori successi della scienza, ma
dopo duecento anni abbiamo trovato
dei fenomeni per i quali era necessario
ripartire da capo e questo ci ha portato
alla Relatività di Einstein di cui
abbiamo appena celebrato il centenario.
Ma la Relatività (ristretta) della
prima ora è stata presto rimpiazzata
dalla Relatività Generale, che all’inizio
si pensava non sarebbe mai stata verificabile
con esperimenti diretti.
Ebbene oggi, a distanza di quasi cent’anni,
il GPS (Global Positioning
System), che quasi tutti ormai usiamo
correntemente, è uno strumento basato
proprio sulla Relatività Generale e
se non si applicassero le sue correzioni,
l’errore che ne deriverebbe sulla posizione
rilevata dal sistema sarebbe dell’ordine
di 10 km!
Come dire che non
servirebbe a niente.
La ricerca è, dunque, una missione
inscindibile dalla vita dell’accademico
scientifico.
L’altra missione, la più antica e tradizionale
della vita accademica, è da
sempre stata quella dell’insegnamento
e della formazione delle nuove leve. E
questa è la ragione per la quale
l’Università è nata e senza la quale, in
un certo modo, perderebbe senso. La
storia stessa dell’Università è caratterizzata
dal fatto che chi vi lavora formi
leva dopo leva i giovani e che i migliori
fra questi vengano selezionati a continuare
la tradizione. Questo non
vuole dire né che tutto vada bene in
questo meccanismo né che non debba
essere riformato. Ugualmente certo,
però, è che non deve neppure essere
rotto per essere sostituito da qualcosa
di completamente diverso.
Un sistema
che ha saputo rinnovarsi e cambiare e
vivere per centinaia di anni fornendo
la spina dorsale della società deve
almeno ritenersi abbastanza ben collaudato
e da modificare solo dopo una
riflessione molto molto attenta. Anche
perché, e certo non per caso, da ormai
centinaia di anni, l’Università è la fabbrica
dei ricercatori e se ormai non è
più l’unico organismo nel quale il ricercatore vive, cresce e lavora, rimane
pur sempre il più importante e
quello formativo a spettro più ampio,
quello cioè cui è demandata la missione
di selezionare i giovani più preparati.
Questo, però, è anche uno dei
motivi per cui occorre vigilare al massimo
per evitare distorsioni, abusi e
malfunzionamenti. La colpa di non
selezionare i migliori è imperdonabile
e non si può transigere al riguardo. Le
colpe di pochi, peraltro (e che pochi
siano non vi è dubbio, per chi vi vive
dentro, che è poi l’unico a poterne
apprezzare virtù oltre che difetti), non
devono far fare di ogni erba un fascio
ed essere alibi per sgangherare un sistema
che, appunto, nel bene soprattutto e talora nel male ha saputo far raggiungere
traguardi molto elevati.
Oggi siamo ad una svolta che non è
solo concettuale. Dopo decenni di una
vera e propria rivoluzione scientificotecnologica,
siamo di fronte da un lato
a sfide non previste e problemi neppure
immaginabili poco tempo fa ma,
dall’altro, abbiamo strumenti quali l’umanità
non ha mai avuto di uguali.
Dal lato dei problemi non vale dire che
essi siano il risultato non tanto della
scienza in senso stretto (cioè della ricerca
fondamentale) quanto della sua
sorella minore, della tecnologia (cioè
della ricerca applicata, in altre parole).
Questo è un alibi che non regge, non
solo perché molti sviluppi tecnologici
hanno come premessa quelli scientifici,
ma anche perché oltre un certo
punto lo sviluppo tecnologico diventa
autonomo.
Pensiamo all’elettronica
veloce e alla tecnologia del silicio, per
fare due esempi non proprio presi a
caso. Partite entrambe dalla fisica delle
alte energie, si sono ormai sviluppate
come branche individuali della scienza.
E così le nanotecnologie, le biotecnologie
ecc.
Dal lato, invece, dei traguardi raggiunti,
un ulteriore aspetto del problema
che non può essere ignorato, ancora
più delicato e difficile da affrontare,
è che siamo forse giunti a un punto
dove sviluppo scientifico e limiti etici
sono ormai ad un confronto se non
addirittura ad uno scontro diretto e
non rinviabile.
Vediamo di approfondire brevemente
questi aspetti senza, è ovvio, nessuna
pretesa né di completezza né di poter
esaurire il problema né di poter analizzarne
tutti i risvolti, ma solo per fissare
un certo numero di punti per un’eventuale
discussione futura.
Da un lato abbiamo sviluppato strumentazioni
che i nostri antenati non si
sarebbero mai sognati potessero esistere.
Neppure la fantasia di Jules Verne
ha immaginato un mondo così capillarmente
dominato dalle telecomunicazioni
(chi ricorda più la vita “pre
telefonini”?) e dove il web collega
istantaneamente tutti i punti della
terra. Allo stesso tempo, abbiamo
anche raggiunto uno stadio in cui la
vita può, spesso, essere prolungata
oltre situazioni nelle quali i nostri
padri (neppure i nostri nonni) sarebbero
morti.
Si pensi a come oggi si
curano problemi cardiaci che solo
pochi anni fa sarebbero stati fatali. In
poco più di un secolo la durata della
vita nei paesi sviluppati è letteralmente
raddoppiata e negli stessi paesi non
solo la fame è stata debellata ma la vita
stessa è stata resa immensamente più
facile: quasi tutti hanno una o più
macchine e ogni sorta di sviluppi tecnologici
ci permette una vita senza
fatiche manuali (anche se, a fronte di
questa nostra situazione da paese di
Bengodi, o, forse, più propriamente,
da paese dei Balocchi permane e, anzi,
si approfondisce il solco tra i paesi ricchi
e quelli poveri e questo è una vergogna
per tutti noi). Quindi, da questo
lato (e se, appunto, ignoriamo i
problemi dei nostri vicini che continuano
a morire di fame o per mancanza
di acqua, quella stessa che noi
sprechiamo in modo indecente) possiamo
concludere che “tutto va bene”
se non addirittura per il meglio. Se, però, si guarda la medaglia dall’altro
lato, si trova che, forse, siamo piuttosto
nella situazione di uno scapestrato
Pinocchio che, trovandosi dei giochi
sempre più divertenti fra le mani li
sciupa senza ritegno e senza neppure
chiedersi se è lecito farlo. Abbiamo
imparato a usare l’energia in modo mai
prima neanche lontanamente confrontabile;
abbiamo costruito macchine
che fanno per noi quello che eserciti di
schiavi non sarebbero mai stati in
grado di fare.
Abbiamo, in questo processo,
sviluppato una ricerca sempre
più frenetica sia di nuove riserve di
energia sia di nuove sue applicazioni,
ma ci siamo, essenzialmente, limitati
allo sfruttamento delle fonti di energia
più tradizionali, petrolio, soprattutto,
carbone, acqua senza preoccuparci in
nessun modo del fatto che queste riserve
di energia fossero non rinnovabili e
come se potessero essere davvero inesauribili.
È vero che in questa rincorsa
è soprattutto la tecnologia ad essere in
prima linea, ma sempre ricerca è quella
che ci ha portato a questa situazione
di spensierata distruzione non solo dei
nostri modi tradizionali di vita ma,
soprattutto, di consumo senza ritegno.
Vero, qualche Cassandra agita da qualche
tempo (talora da decenni) lo spauracchio
di drammi futuri ma, proprio
perché futuri, questi hanno scarsa
presa sull’opinione pubblica e quasi
nessuna sui politici (o, almeno, su
pochi politici avveduti di pochi paesi).
Da qualche anno, però, la ripetizione
degli allarmi e la concomitante variazione
sensibile di parametri della
nostra esistenza hanno cominciato a
diffondere la paura, nella molteplicità
di crisi che stiamo già vivendo e di
quelle che cominciamo ad intravvedere.
Alle crisi finanziarie degli ultimi
tempi molti cominciano ad associare
quelle energetiche, del cambiamento
di clima, dei ritardi nella ricerca di
nuove fonti non inquinanti e rinnovabili
di energia, di sovvertimento delle
tradizioni ecc.
È non senza una certa preoccupazione
legata alla domanda se questa presa di
coscienza non sia già tardiva che, grazie
anche alla decisa sterzata impartita
sul problema energetico dal nuovo
Presidente USA, possiamo guardare
ad un futuro più consapevole della
specie “homo sapiens”. E, appunto,
speriamo che non sia troppo tardi.
A tutte queste crisi in atto o potenziali,
si sommano crisi che si stagliano
all’orizzonte e delle quali non soltanto
abbiamo ancora una percezione confusa
ma che neanche sapremmo individuare.
Penso ai risvolti etici che sempre
più non solo categorie selezionate
di scienziati si pongono e si devono
porre, ma che ormai investono tutto il
mondo della ricerca fondamentale ed
applicata nella misura stessa in cui
queste si sviluppano quotidianamente.
E, a sua volta, questi nuovi sviluppi
presentano risvolti ai quali non abbiamo
ancora quasi cominciato a pensare
come scienziati.
Da un lato si può certo argomentare
che la scienza (e la sua accompagnatrice,
la tecnologia) abbiano le capacità
potenziali per affrontare le sfide che i
tempi nuovi ci pongono, dall’altro,
però, l’incognita maggiore resta quella
di vedere se i politici sapranno cogliere
le indilazionabili urgenze di questi
tempi e se gli scienziati stessi sapranno
calarsi nella realtà delle cose e imparare
a gestire le difficoltà facendo partecipe
la Società sia delle difficoltà sia
degli strumenti che verranno sviluppati
e proposti. Come dire, vale sempre
la maledizione cinese “possa tu
vivere giorni interessanti”…
Peccando magari di un qualche neopositivismo
o di un tardo positivismo,
se l’uomo ha la potenzialità per sviluppare
gli strumenti necessari da un lato
a chiarire bene i termini dei molti problemi
che lo confrontano e dall’altro a
risolverli, l’orizzonte è certo fosco
sotto molti concomitanti punti di
vista.
Nel mondo moderno abbiamo
visto esempi in cui l’applicazione della
ricerca a livello nazionale ha portato a
un forte sviluppo (pensiamo alla
Finlandia, alla Corea) ed è ormai riconosciuto
da (quasi) tutti che la conoscenza
è il bene più prezioso a disposizione
dell’uomo. Resta da sperare, su
base globale, che l’uomo sappia
affrontare nel modo giusto le sfide che
gli si pongono davanti e, restando al
nostro Paese, che i nostri politici si
convertano rapidamente a questa
necessità per evitare al paese medesimo
un declassamento che non sarebbe
solo economico.
La conclusione è un invito, mai tanto
pressante quanto lo deve essere oggi, a
tutti i giovani ad avere fiducia nella
scienza, ma una fiducia che sia più critica
e meno incondizionata di quella
delle generazioni precedenti, con la
speranza che queste necessità vengano
comprese per tempo dall’uomo e dai
governanti. Con l’auspicio, in ultima
analisi, che le Università sappiano
aprirsi alle nuove sfide poste dalle loro
stesse scoperte e che, quindi, sappiano
muoversi rapidamente verso l’adozione
di quella che nelle società più progredite
è chiamata la terza missione
dell’Università e cioè quella di sapersi
aprire ad un confronto diretto con la
società.
Tanto è indispensabile che la
società appoggi e capisca gli sforzi che
fanno i ricercatori quanto lo è che i
ricercatori imparino a spiegare alla
società il perché profondo delle loro
ricerche e che cadano le barriere che
hanno reso incomprensibile non le
ricerche, ma le loro motivazioni.