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2003: Anno europeo dei disabili

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Il signor Marco, 41 anni, sente la sveglia, sono le ore 8.00. Apre gli occhi, la luce è già accesa, sbadiglia e poi soffia pigramente mentre si alza semiseduto sul letto. Soffia ancora, si accende la TV, segue le prime notizie del telegiornale mattutino. Dopo dieci minuti sua moglie entra in camera e lo saluta. Marco non usa più i suoi quattro arti da qualche anno. Un incidente gli ha lesionato il midollo a livello cervicale. Marco è tetraplegico.
Francesca, 11 anni, qualche ora più tardi è a scuola. L’insegnante presenta alla classe gli esercizi del compito in classe. Francesca da un calcio poco convinta, la matematica non le è mai piaciuta. Decide di iniziare il compito con l’esercizio n.2, per due ore non fa che “calciare”.

Francesca non ha un controllo volontario del corpo se non parzialmente all’arto inferiore destro e del capo. Francesca è nata così, una paralisi cerebrale infantile con forti distonie.

Ogni persona, quotidianamente compie delle scelte, si muove, comunica, usa le cose che servono per soddisfare i bisogni della vita quotidiana, in una parola vive. Marco e Francesca, sono esempi di come una persona disabile può compiere normali attività e relazionarsi se supportato da una adeguato intervento che comprende una corretta riabilitazione, un corretto intervento della rete sociofamiliare e una corretta individuazione di ausili.

Marco, quando apre gli occhi, trova la luce accesa perché l’orologio funge anche da timer per l’impianto elettrico delle luci della sua stanza. Quando soffia nel sensore, egli comanda al letto elettrico di sollevargli la schiena per metterlo in posizione seduta. Lo stesso sensore attiva anche l’accensione e lo spegnimento della TV, che guarda in attesa dell’arrivo della moglie che lo vestirà dopo aver preparato la colazione ai loro figli.

Francesca riesce a tenere gli occhi fissi sul video del proprio Personal Computer, gli involontari movimenti del capo non le permetterebbero di riuscirci perchè sono bloccati da uno specifico poggiatesta.

Con il movimento della gamba, unica azione volontaria ripetibile, Francesca tocca un sensore posto vicino al suo piede che aziona sullo schermo un programma a scansione che le permette di scrivere, disegnare, ed eseguire il suo compito di matematica. Sia Marco che Francesca, quel giorno faranno molte altre cose: lui andrà al lavoro, lei giocherà con gli amici. Immersi fra gli altri e aiutati dalla tecnologia. Cercare di migliorare l’ambiente che lo circonda adattandolo alle proprie esigenze, soddisfacendo i propri bisogni, diminuendo la fatica, è la missione del genere umano, una missione mai raggiunta pienamente, un obiettivo in continuo superamento. L’ambiente è stato snaturato, se vogliamo, alterato, perché così come era, appariva inospitale e inadatto, non è quindi solo la persona disabile a incontrare ostacoli, ma il genere umano nella sua totalità. Se volessimo sintetizzare questo concetto, estremizzando come sempre accade in tali circostanze, potremo affermare che non è il disabile a non essere “adatto” a questo ambiente, è l’ambiente a non essere stato modificato a sufficienza per accogliere tutti. Paradossalmente la prospettiva che la persona con disabilità si trova davanti non è molto diversa da quella della persona senza disabilità, ciascuno infatti una volta sentito un bisogno cerca uno strumento, un mezzo, una soluzione per soddisfarlo e per fare ciò ha adottato la soluzione più raggiungibile, economica e funzionale elaborando feed-back se non può direttamente vedere o controllare l’azione dello strumento, del mezzo, della soluzione.

I continui progressi tecnologici possono e devono essere utilizzabili per rendere meno disabile una persona che, affetta da qualche malattia, ha perso le sue normali abilità. Per far questo si adottano due strategie fondamentali:

  • migliorare il recupero delle funzioni fisiologiche attraverso trattamento riabilitativo per ottenere il maggior recupero possibile;
  • compensare le funzioni perse attraverso altre parti del corpo funzionanti e attraverso l’utilizzo di ausili in generale e gli ausili tecnologici per i casi particolarmente gravi.
Le nuove tecnologie e la riabilitazione
Presso l’Ospedale di Riabilitazione di Trevi la ricerca sull’utilizzo delle nuove tecnologie in campo riabilitativo è iniziata oltre 10 anni fa. All’inizio degli anni novanta sono stati studiati gli RGO (Reciprocator Gait Orthosis), ausili tecnologici che permettono al paziente paraplegico (cioè senza più l’utilizzo degli arti inferiori) di stare in piedi e camminare come un robot. Questo primo studio se da un lato costituiva un elemento di entusiasmo nel ridare la funzione del cammino a coloro che l’avevano persa, dall’altro ci ha permesso di rivedere in modo critico l’approccio al problema (Massucci, Brunetti et al. 1996; Franceschini, Baratta et al. 1997).
In particolare l’utilizzo effettivo dell’ausilio era relativo sia per le difficoltà di “vestirlo” che per l’autonomia negli spostamenti che effettivamente forniva. La carrozzina permetteva spostamenti veloci e garantiva maggiore autonomia, per cui questo ausilio particolarmente sofisticato veniva utilizzato solo per stare in piedi e fare qualche passo da parte di persone selezionate, mentre la maggior parte l’abbandonava.
L’attenzione verso le nuove tecnologie è continuato con lo sviluppo di un guanto per il controllo di ambienti virtuali e per interfacciare la mano con il computer. Tutto questo per il miglioramento della riabilitazione dell’arto superiore sfruttando le potenzialità del computer. Lo sviluppo di questo guanto è nato dalla collaborazione dell’Ospedale di Riabilitazione di Trevi e l’Istituto PERCRO della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (http://www-percro.sssup.it).

In una prima fase è stata valutata l’affidabilità del guanto attra- verso una serie di esperimenti. Evidenziate le peculiarità e i limiti, in collaborazione con l’Università di Perugia è stato sviluppato un sistema per cui il computer valuta la correttezza del movimento della mano e dà informazioni per la correzione (bio-feedback). In questo modo il paziente può esercitarsi, anche senza l’aiuto del terapista, per migliorare la funzionalità della mano. Questo sistema è particolarmente usato per malattie del sistema nervoso centrale come ictus, traumi cranici e sclerosi multipla.


Il Centro Orientamento Ausili Tecnologici

L’utilizzo delle nuove tecnologie, ancorché affascinante, rischia di rimanere fine a se stesso se non indirizzato verso le reali esigenze della persona disabile. La maggior parte dei fallimenti dell’applicazione delle nuove tecnologie nasce proprio dalla mancanza di un’accurata valutazione e applicazione secondo specifiche indicazioni per la riabilitazione o per l’ausilio.

Da questa esigenza è nato il Centro Orientamento Ausili Tecnologici (COAT) che ha lo scopo di valutare e orientare verso la scelta di ausili tecnologici sia durante il programma riabilitativo per ottimizzare il recupero funzionale, che per fornire ausili per il miglioramento dell’autonomia.

Il COAT è costituito da un gruppo di operatori con diverse competenze che nel corso degli anni hanno trovato un linguaggio comune e sta cercando di trovare soluzioni possibili ai problemi delle persone disabili.

Il gruppo interdisciplinare è costituito da una o più figure mediche, una o più fisioterapisti, una psicologa, una logopedista, un ingegnere elettronico e uno informatico.

La parte “visibile” dell’operato del COAT si esplica nell’attività di consulenza alle persone disabili, ai loro familiari, agli operatori che si occupano a vario titolo della persona disabile. Ad un primo contatto telefonico segue un appuntamento per il quale è richiesta la presenza di quanti vivono, operano e lavorano con la persona con lo specifico problema: familiari, operatori sanitari, sociali, della scuola e/o volontari.

Alla prima consulenza si raccoglie un’accurata anamnesi, si valuta il paziente e si acquisiscono informazioni da parte del paziente e di coloro che vivono con lui. Successivamente comincia il lavoro “invisibile”, quello cioè della ricerca della soluzione più idonea, funzionale, praticabile ed economica. Negli appuntamenti che seguono si mostrano le soluzioni pensate e si fanno provare.

Tutto sembrerebbe molto semplice, quasi come recarsi in una sartoria di lusso dove una squadra di sarti ti prende le misure, fa domande sul perché e per come e per quali usi servirà il vestito e alla fine te lo fornisce bello, pronto e su misura. La realtà è un pochino più complessa. Anche la sartoria, per quanto rinomata e “griffata”, se vuole che l’abito sia “quello giusto” ha bisogno di fare prove, aggiustare, scucire, ricucire e rimodellare. Ecco, esattamente come il COAT prima di prescrivere l’ausilio. Perché un concetto deve essere alla base del lavoro e condiviso da tutti, utente finale, figure che ruotano intorno e operatori del COAT: l’ausilio viene prescritto laddove soddisfi un bisogno reale, l’utente sia motivato ad usarlo, sia una scelta condivisa e inserita nel contesto.

Ma perché una struttura così specifica?
Non possiamo dare risposte da “catalogo”, quelle l’utente le ha spesso già sperimentate in maniera deludente; rimanendo all’esempio del vestito è per lo stesso motivo per cui poco successo rispetto al mercato totale hanno gli acquisti per corrispondenza. Chi di noi, avendo la possibilità di provarlo acquisterebbe un abito a scatola chiusa vedendolo solo su catalogo o in televisione? Pochi, e quanti di noi avendone la possibilità si farebbero tagliare un abito su misura di colore, stoffa e foggia desiderata? La risposta è pleonastica, la maggior parte di noi invece si reca in un negozio, si prova l’abito o gli abiti che sono più di suo gusto e in base all’uso, alla taglia, al colore, e al prezzo decide se acquistarlo o meno.

Ma il lavoro del COAT non finisce con la sola "consegna" dell'ausilio: siamo all'inizio di un percorso che porterà al perfezionamento e all'adozione dell'ausilio per gli scopi prefissati. Una volta individuate le figure chiave intorno alla persona (familiari, assistenza domiciliare, insegnanti…) si mettono in condizione di poterla assistere ed aiutare nell'utilizzo del sistema di ausilio: l'addestramento all'utilizzo dell'ausilio vale quasi come l'ausilio stesso. Questo processo può durare anche diversi mesi e richiedere una serie di contatti e "aggiustamenti" dell'ausilio (posizione dei sensori, forza di attivazione, feedback…) al fine di perfezionare e personalizzarne l'uti- lizzo. Per questo è fondamentale l'analisi del contesto sociofamiliare che sarà di supporto a questo lavoro di addestramento e soprattutto la qualità della motivazione espressa dalla persona stessa protagonista dell'adozione dell'ausilio. Il COAT, la tecnologia e l'assistenza possono essere un supporto alla volontà della persona: il signor Marco e Francesca non avrebbero mai raggiunto una maggiore autonomia senza una motivazione importante e duratura nel tempo: compito del gruppo di lavoro è anche quello di monitorare gli aspetti psicologici legati all'adozione del sistema di ausilio e cercare di proporre tappe intermedie, elementi di gratificazione/motivazione, correzioni al fine di facilitare il processo.


Teleassistenza e teleriabilitazione

Si parla quindi di "processi" sia nella riabilitazione che nell'adozione di un ausilio: piuttosto che ad eventi puntuali come la consulenza propriamente detta, ci si riferisce a percorsi che durano nel tempo e si estendono nello spazio coinvolgendo una serie di soggetti che fanno parte del contesto di vita della persona disabile. In questo senso la possibilità di una continua assistenza e collegamento con il centro di competenza, sia esso l'Ospedale di Riabilitazione oppure il COAT, risulta essenziale. Tale esigenza deve poter essere coniugata con la gestione delle risorse interne ed i costi di servizio. A questo proposito è in atto presso l'Ospedale di Trevi il progetto HCAD - Home-Care Activity Desk-co-finanziato dalla Comunità Europea (www.hcad.net): lo scopo è quello di mettere a punto e sperimentare nuove modalità di riabilitazione "a distanza", ma pur sempre sotto controllo e monitoraggio del gruppo di lavoro dell'ospedale. Tale sistema consente una integrazione degli strumenti tipici della terapia occupazionale con un sistema elettronico in grado di registrarne e monitorarne l'utilizzo da parte della paziente. Un sistema di oggetti sensorizzati consente di conoscere le "perfomance" tipiche nell'effettuazione dello specifico esercizio, mentre una telecamera permette di avere una visione della postura e del tipo di movimento esercitato durante l'esercizio. Il sistema è in grado quindi di connettersi con il Centro di Riabilitazione per l'aggiornamento dei dati e soprattutto per la realizzazione di un collegamento in video-conferenza tra il medico/terapista, il paziente ed suoi familiari, al fine di mettere a punto le migliori strategie per il recupero delle funzioni, per un supporto psicologico, per consigli ed accorgimenti utili al miglioramento dell'autonomia e della qualità della vita quotidiana nel proprio ambiente domestico.

L'adozione di tale tecnologia consentirà un'anticipata dimissione di pazienti senza comprometterne il percorso riabilitativo e soprattutto con un maggior grado di supporto nei confronti dei familiari e dell'assistenza domiciliare in genere. Il paziente non viene quindi più "perso di vista" dall'equipe, ma rimane ad essa collegato e da essa assistito attraverso una soluzione efficiente sul piano dei costi e delle risorse umane impiegate. La reale sfida di questo progetto è quindi non tanto sul piano dell'appropriatezza tecnologica (le singole tecnologie sono note ed in parte già in uso), quanto la sua rispondenza rispetto alle reali necessità di assistenza della persona tenendo presente le sue necessità sia sul piano riabilitativo che su quello umano.
 
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Mauro Zampolini
Responsabile Unità Gravi Cerebrolesioni Acquisite
ASL 3
Regione dell'Umbria
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