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L’ipotesi di partenza: essere un laboratorio permanente delle diversità sul territorio
Quella che si va a raccontare è una storia di “teatro delle diversità”, che è in-divenire, che non si è ancora conclusa (e che è difficile definire da dove sia realmente cominciata), che vive nel presente dell'happening, della festa di dolore e di gioia costante e duratura: si parlerà dell’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” di Roma, un “laboratorio permanente delle diversità sul territorio” , in cui le diversità che si chiamano in gioco sono quelle di qualsiasi persona umana e non soltanto quelle delle persone “handicappate”.

Dai primi mesi del 2001, l’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” sta proponendo una stimolante e difficile intrapresa teatrale, con risvolti sociali e culturali di indubbio interesse.

L’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” è nata nel 1988 dall’incontro casuale tra giovani con e senza problemi psichici o di disagio psichiatrico, come ipotesi di laboratorio permanente delle diversità sul territorio. L’handicap non è stato mai considerato come elemento di discriminazione, quanto un’ulteriore occasione di incontro e arricchimento reciproco.

Ogni persona è portatrice di un bisogno di comunicazione, che trova realizzazione là dove essa viene riconosciuta come portatrice di cultura. Infatti, ogni persona riesce a percepire frammenti importanti e specifici della realtà attraverso la propria sensibilità affinata da patologie mentali, handicap fisici, esperienze culturali, militanze politiche o cammini di fede. Un laboratorio delle diversità è il luogo ideale in cui poter confrontare le presunte verità di ogni persona, disposti a perdere le proprie sicurezze e i propri integralismi, per immergersi totalmente in una comunicazione psico-corporea con l’altro. Attraverso la condivisione e lo scambio reciproco nel lavoro, nel tempo libero e nell’impegno civile e sociale, l’Associazione cerca di valorizzare l’enorme ricchezza delle diversità psichiche, psichiatriche, fisiche, sensoriali, culturali, politiche, religiose, etniche e sociali.

Ecco allora, laboratori espressivi con performance teatrali; vacanze estive in gruppo integrato; accoglienza in famiglia di bambini bielorussi contaminati da Chernobyl e lo sviluppo di progetti sul territorio bielorusso.

Ruolo predominante viene dato all’attività teatrale, ritenendola occasione e strumento di crescita individuale e collettiva, veicolo di scambio reciproco, momento di valorizzazione delle diversità di ciascuno.

L’happening rappresenta il tentativo di dare una dignità artistica ai percorsi umani avviati e la pretesa di dare una veste professionistica allo stare insieme sul palcoscenico, restituendo nel contempo al teatro la sacralità di un luogo di iniziazione alla vita e di proposizione di una domanda ragionevole per l'esistenza di ciascuna persona, che purtroppo ha perso da tanto tempo.

L’Associazione Volontari “Il Cavallo Bianco” opera per un graduale passaggio da una mentalità diffusa che vede le persone con diversa abilità come un oggetto di assistenza ad una cultura nuova, che riconosca il valore di ogni diversità, valorizzando le persone con esperienza di disabilità come soggetto di cittadinanza attiva.

Il Laboratorio interculturale di teatro ed attività espressive nasce come ipotesi di laboratorio permanente delle diversità sul territorio. Le diversità fisiche, psichiche, sensoriali, culturali, politiche, religiose, etniche ed economiche non vengono considerate come motivo di discriminazione ed emarginazione, ma come occasione di scambio reciproco e di crescita comune, nell’ascolto costante dell'altro. In tal senso, il Laboratorio diviene ricerca di una possibile e quotidiana cittadinanza partecipata, che comporta l'individuazione dei problemi del territorio e la proposta concreta di soluzioni di convivenza interculturale.

Il percorso teatrale come ricerca-azione dell’integrazione sociale negata

Il progetto “Pinocchio nel paese delle meraviglie” continua ed approfondisce le attività avviate fin dall'inizio, che hanno avuto il duplice scopo dell’integrazione sociale e culturale di persone con disabilità e della promozione di modalità culturali e di comunicazione sociale, che coniugassero insieme tradizione letteraria e teatrale, innovazione tecnologica ed impegno civile e sociale. Il progetto si articola in una serie di laboratori di animazione teatrale ed espressiva paralleli, che coinvolgono persone con disabilità mentale e disagio psichiatrico; persone tossicodipendenti in trattamento sanitario in comunità; bambini bielorussi con ritardo mentale o problemi psichici di un orfanotrofio in area Chernobyl; giovani da tutta Europa in situazione di scambio giovanile/campo di lavoro internazionale; persone provenienti da associazioni, cooperative sociali, scuole e parrocchie.

I laboratori si sono fin qui svolti a Roma, all’Isola d’Elba (presso la Comunità Exodus per giovani tossicodipendenti in trattamento sanitario) ed in Bielorussia (presso l’Istituto per bambini oligofrenici di Begoml – Minsk).
In ciascuno dei Laboratori è stato avviato un percorso sul tema comune della favola di Pinocchio, sviluppando ciascuno i frammenti della storia più vicini alle proprie esperienze di vita.

Il tema della diversità fisica, psichica, culturale e religiosa è stato affrontato, prendendo a prestito la nota favola di Pinocchio, che è divenuta quindi metafora delle discriminazioni, delle barriere culturali e della istituzionalizzazione-medicalizzazione del disagio mentale, ma anche dell’integrazione sociale e culturale.

Il testo di Collodi è stato utilizzato come pretesto per mettere in scena storie di vita, ma per conoscere la sua tradizione letteraria, in relazione agli scrittori contemporanei di Collodi, e per approfondire lo studio della morfologia della fiaba ed alla storia delle tradizioni popolari.
Il percorso teatrale è iniziato nel marzo 2001, con tre happening teatrali, il primo nel giugno 2001, il secondo nel marzo 2002 ed il terzo nel dicembre 2002, oltre a due allestimenti “parziali” del solo gruppo del Cavallo Bianco realizzati tra marzo ed aprile 2003.

Ciascuno spettacolo è stato notevolmente diverso nell'allestimento scenico, nella narrazione e nella proposta performativa, ma tutti hanno mantenuto lo stile di una festa, di un evento unico ed irripetibile.
Probabilmente, le diversità possono essere messe in scena e “giocate” con i singoli spettatori (che si divertiranno o piangeranno solo se accetteranno di mettere in gioco anche la propria specifica ed inimitabile diversità) soltanto in un evento unico e irripetibile.

La lezione di Artaud sulla sacralità del teatro e sulla rigenerazione del mito consiste probabilmente in questo. Non a caso Artaud parla di un evento unico ed irripetibile, che viene situato in cima ad un percorso, ad un’avventura teatrale. È la festa, ma una festa IRRIPETIBILE, legata ad una ricorrenza importante: non è replicabile la festa di compleanno di quest'anno o la festa di laurea. La tensione è legata ad una specifica festa, non all'argomento che tratta: si possono fare più feste di compleanno o di laurea, ma sono feste diverse. Altrimenti, come più volte ha sottolineato Marc Augé, si cade nell’«eccesso di evento», in cui qualsiasi occasione si spaccia per evento, compreso l’anniversario di apertura di un supermercato.

Essere portatori di diversità nei nuovi scenari spazio-temporali

Il progetto “Pinocchio nel paese delle meraviglie” si sviluppa a partire dall'analisi dell’attuale contesto storico, in cui il corpo è strumento, veicolo e segno della disgregazione spazio-temporale e delle nuove categorie della conoscenza. Viene allora utilizzata una nozione estremamente moderna, quella di locality. La locality è intesa come una forma di vita più identificabile nella temporalità che nella storicità, più complessa della comunità, più simbolica della società, meno connotativa di paese, più mitologica che ideologica, più ibrida nelle articolazioni delle differenze culturali e nelle identificazioni (genere, razza, classe) che nella possibilità di rappresentarsi in qualsiasi strutturazione gerarchica o binaria dell'antagonismo sociale. Una località che ridisegna tutti gli spazi sociali individuali, attraversando e frammentando le categorie identitarie. I nuovi soggetti negli spazi urbani, che si sono sviluppati come contenitori “neutri” di diaspore e delocalizzazioni, elaborano profili culturali sovversivi e in profonda conflittualità con quelli rassicuranti del passato. In questi “non luoghi” le categorie della sessualità, etnicità, identità si opacizzano: la classe, il genere, la razza, l’età perdono sempre più la loro legittimità per definire l’identità, diventando solo tele di fondo di più complesse e conflittuali figurazioni. La dimensione relazionale, contestuale, ma soprattutto spaziale della locality viene considerata come una complessa qualità fenomenologica, costituita da una serie di legami fra il senso dell'immediatezza sociale, delle tecnologie, dell'interattività e la relatività dei contesti; legami che saranno poi proiettati in un progetto di mondo delocalizzato.

Utilizzando tali nozioni antropologiche, il progetto ha inteso inserire la diversità (ed in particolare il disagio psichiatrico, il ritardo mentale, la disabilità psichica) in un contesto interattivo, in cui le antiche categorie di giudizio saltano, in cui le nuove tecnologie esaltano la provocazione della “deformità” fisica e psichica, in cui si può prendere la parola anche attraverso il grido del corpo.
Il progetto cita testualmente Mariella Pandolfi sulla nozione di corpo nomade: “Alla fine del secolo e del millennio, troviamo noi stessi in un momento di transito dove lo spazio e il tempo, incrociandosi producono complesse figure di differenza e identità, di passato e presente, di esclusione e inclusione. Parlare di cultura in tali spazi critici significa parlare di sopravvivenze soggettive, transnazionali e soprattutto transtraduttrici. Significa parlare di un passaggio obbligato e senza ritorno da una cultura della città ad una cultura urbana, segnato dalla crisi delle forme di socializzazione legate all’habitat, dalla crisi della rappresentazione del conflitto sociale e delle sue forme di attuazione, dalla crisi delle forme di comunicazione istituzionale, quelle della comunicazione sociale, dello scambio politico e della rappresentazione politica. Di conseguenza, la dismissione transnazionale delle trasformazioni culturali instaurerà un processo continuo di traduzione attraverso i dislocamenti e le ricollocazioni dei soggetti, producendo poi nuove nicchie di resistenza e di concentrazione della differenza e rinegoziandone tutte le esperienze intersoggettive”.

Diversità e confronto di corpi
Il progetto “Pinocchio nel paese delle meraviglie” afferma l’importanza di una comunicazione e di una espressione nella globalità dei linguaggi, che diviene terreno comune del “confronto di corpi” tra cosiddetti portatori di handicap e cosiddetti normodotati. Viene ripresa l’esperienza di Karl Delacato (e della sua èquipe dell’Istituto di Filadelfia) e gli studi del neurologo Fay, per i quali il cervello umano è il prodotto di una evoluzione, ma sepolta dentro ciascuno. Gli uomini furono pesci e poi rettili e infine mammiferi. Nuotarono, strisciarono e, quindi, camminarono a quattro zampe senza parlare e scrivere, prima di alzarsi in piedi, marcare la scrittura, trasformare due zampe in gambe e due in braccia, assegnare ad ogni braccio, ad ogni mano una funzione diversa, permettere alla mano di uccidere e di scolpire la roccia, di scrivere e di ricordare ciò che è scritto.


Ogni nuova fase di questa evoluzione è restata scolpita nel cervello a una profondità gelosa e segreta, così che l'uomo porta con sé tutto il passato della specie in attesa che qualcuno la sveli. Si può dire che ogni movimento del corpo, delle membra, dei sensi è un processo di apprendimento. Il bambino, muovendosi nella culla, camminando successivamente carponi, progressivamente impara a distinguere lo spazio dal tempo, a misurare l’uno e l’altro. Acquista, per così dire, una tecnica dell’apprendimento sempre più complessa mano mano che cresce. Ma queste azioni che egli compie strutturano anche il cervello, ne condizionano la sua maturazione.
Leroi-Gourhan indirettamente dà un avallo antropologico alle teorie di Delacato. In “Il gesto e la parola” , parla, in una prospettiva che va dal pesce dell'Era primaria all’uomo dell’Era quaternaria, di una serie di “liberazioni” successive: quella dell’intero corpo rispetto all'elemento liquido; quella della testa rispetto al suolo; quella della mano rispetto alla locomozione; quella del cervello rispetto alla maschera facciale.

Leroi-Gourhan afferma che il mondo vivente matura da un'età all'altra, operando una scelta di forme pertinenti, ponendo in luce una lunga strada in regolare ascesa, sulla quale ogni “liberazione” segna un’accelerazione sempre più notevole. In questa concatenazione, le forme pertinenti sono quelle che, in ogni momento dello svolgimento, presentano l’equilibrio migliore, sotto il triplice aspetto della nutrizione, della locomozione e degli organi di relazione, nella mobilità e nella vivacità, caratteristiche fondamentali delle specie scelte per dimostrare la progressione ascensionale del mondo vivente.

In particolare, Leroi-Gourhan è innovativo lì dove pone la mobilità come l’elemento più importante della evoluzione verso l’uomo. In effetti, i paleontologi non lo hanno tralasciato, ma è sembrato sempre più naturale prendere come caratteristica dell’uomo l'intelligenza che non la mobilità, per cui le teorie si sono basate in primo luogo sulla preminenza del cervello.
La conquista dell’aria libera, l’affrancamento dalla reptazione, l’accesso alla bipedia costituiscono altrettanti temi assai bene studiati da quasi un secolo, ma è comunque significativo il fatto che appena trenta anni fa si sarebbe accettato quasi più facilmente un quadrupede con cervello già umano, che un bipede cerebralmente in ritardo come l’Australopiteco. Questo punto di vista “cerebrale” dell’evoluzione oggi appare inesatto e sembra che esista una documentazione sufficiente a dimostrare che il cervello si è avvantaggiato dei progressi dell’adattamento locomotore, anziché provocarli.

Porre Leroi-Gourhan a premessa di un laboratorio delle diversità, per quanto appena detto, significa rivoltare le gerarchie corpo-mente utilizzate dal potere in Occidente, da secoli e secoli, per consolidare e gestire una società della sicurezza per pochi e del disagio per tanti.
Il progetto ha avvertito la necessità di un percorso personale dei partecipanti di riappropriazione della propria Storia (spirituale, sociale, culturale, politica, etc.) come Uomo e come Collettività, nella riscoperta e nel recupero di quei linguaggi non verbali sepolti, nella educazione dell’Essere-Corpo. Il percorso è stato tracciato sulla base del lavoro ultraventennale di Stefania Guerra Lisi (“inventrice” del metodo della globalità dei linguaggi).

Lo spazio non viene inteso più soltanto come “spazio metrico”, ma anche come “spazio sensibile”. È uno spazio di movimento, di colori, di suoni, di odori e di sapori, di buio e di luce, interno ed esterno, di tono muscolare e di percorsi-traccia. Scrive Guerra Lisi “Ogni persona è portatrice di una sua storia corporeo-sensoriale, che bisogna imparare a leggere per continuare a scrivere insieme, nella sua lingua, in quella lingua sepolta nella memoria del corpo di ognuno. L’obiettivo pedagogico è, quindi, lo sviluppo della personalità nella rivalutazione dell'entità corpo-sensoriale come elemento diverso e comune (la diversità come norma) e, quindi, come presupposto alla socializzazione e non alla massificazione. Ad ogni cosa del mondo fisico corrisponde un suono, che è quello dell'energia che lo anima.

Il movimento è espressione vitale e, quindi, traccia (sonora, cromatica, plastica) in evoluzione nello spazio, che crea intorno a sé per irradiazione. Vivere è tracciare nel vuoto, sonoramente, graficamente, con la propria forma, destinata alla comunicazione già nell’esplicitazione della sue caratteristiche fisiche: noi siamo il nostro corpo-traccia” .

La metodologia del grido ovvero il mito di Pinocchio alla luce di Artaud
L’ipotesi finale è che è possibile recuperare la sacralità del teatro antico (che viene a coincidere con il confronto e la scoperta del sé più profondo) solo in quelle esperienze teatrali, in cui la diversità dei partecipanti è la condizione sine qua non dell’evento finale da realizzare. È il teatro del margine, della liminalità, degli emarginati di ogni tipo, della festa interculturale delle diversità.

È in tali contesti che oggi si realizza per la prima volta il “teatro della crudeltà”, quel teatro che Artaud non riuscì mai a mettere in scena, se non facendolo coincidere con il proprio corpo dilaniato e sbranato dal potere, come Dioniso o Cristo.

È in tali contesti che, finalmente, salta la dicotomia tra corpo e mente, quella che ancora oggi è uno dei fondamenti per la perpetuazione e il consolidamento del potere vigente: sui palcoscenici dei “teatri delle diversità” è la carne che grida e gioisce.

Artaud è guida in questo cammino con il grido e la carezza, è l’opportunità di dare voce a coloro a cui non è stata mai data voce, ma è anche la possibilità per qualunque persona di mettersi in gioco con la propria specifica e peculiare diversità, senza paura di essere giudicata ed emarginata. Come insegna Artaud nella sua ultima performance radiofonica, la diversità si può cantare, giocare e gridare.

Con Artaud, si è introdotti nell’idea della pelle come interfaccia, come frontiera, come confine che separa un dentro da un fuori. Il grido prorompe dalla carne, prima ancora della carezza: Artaud mostra la necessità del grido, prima ancora della carezza, del contatto corporeo. Per chi ha subito le più atroci manipolazioni del proprio corpo, è difficile ricominciare un percorso di autodeterminazione, a partire dal contatto fisico: Artaud non ci riesce, ma vuole essere di nuovo con l’altro e lo fa imponendo il suo grido.
Nei percorsi di teatro-terapia, si utilizza più facilmente la carezza piuttosto che il grido: probabilmente, è una riscoperta del corpo, che è ancora legata a valori e stili di quel potere, che ha da sempre negato la carezza.

La corporeità attuale si traduce in palestre, saune, diete, cure di bellezza, pornografia e terapie riabilitative: il sospetto è che il potere si sia già impossessato del corpo liberato dalle censure religiose e filosofiche, per incasellarlo in nuove prigioni virtuali. Molti “teatri delle diversità”, specie quelli in cui partecipano persone con handicap mentali, psichici o psichiatrici, utilizzano la carezza, ma hanno terrore del grido: gli operatori sociali dichiarano che il proprio compito è di “contenere” la persona con disagio e che non possono permettersi di provocare reazioni non controllabili.

Scrive Mariella Combi, nel suo esaustivo saggio sul grido e la carezza: “Solo il grido, grido di dolore, che nasce dalle profondità della propria esperienza, può suggerire il senso di quanto si sta vivendo. Grido, pure di rabbia, per l'impotenza totale a modificare uno stato di fatto immutabile. Prima ancora del lamento e delle lacrime. Urlo che prorompe senza possibilità di controllo sia che si trasformi in suono, sia che rimanga nel silenzio, muto. Ma il grido turba gli altri, li rimette in contatto con le loro sofferenze, porta alla luce il dolore individuale e collettivo con le angosce e i fantasmi ad esso connessi. Forse per questo la richiesta sociale è di nasconderlo: è contagioso e innesca reazioni sociali che possono divenire incontrollabili in quanto non ritualizzate”.
Quanto afferma Combi porta a conclusione l’ipotesi del grido come centro di un percorso concreto di “teatro delle diversità”, un grido che rompe e attraversa lo specchio, un grido che, deflagrando dal profondo della carne, non teme il confronto con l'alterità annidata in ciascuna persona umana.

“Il grido acquista pure il ruolo di prototipo della domanda e di prova della sofferenza che sollecita nell'altro il riapparire del ricordo delle sue esigenze e delle sue esperienze dolorose. La memoria del già vissuto innesca meccanismi di disponibilità alla comprensione di quanto sta comunicando l'altro: memoria del dolore condiviso a partire dal bisogno e dalla frustrazione che strutturano la potenzialità dello scambio comunicativo.

[…] Il grido richiede sempre una risposta immediata e urgente: non c'è tempo da perdere, non prevede il rinvio ed esige una vicinanza spaziale. Sospende momentaneamente, in particolare quando è raccolto, il percorso dell'individuo e del sistema: sollecita un attimo di riflessione per la decodifica all'interno del coinvolgimento che crea. Che sia acuto, rauco, soffocato, assordante, stridulo o inarticolato il grido è una forma di relazione che si stabilisce fra dentro e fuori come pure fra singolo e ambiente”.

È’ significativo che un intellettuale come lo è stato Artaud giunga al termine della propria esistenza e della propria opera artistica a de-comporre le parole, a farle esplodere in suoni senza senso, a cercare un linguaggio per tutti.

Combi annota: “La parola è importante nel riconoscimento: non è la presenza della parola in sé, ma il suo ascolto che pone la possibilità di riconoscere l'altro. […]La parola è stata vista come prodotto della mente e non del corpo. Individuare questi due processi come entità di uno più ampio li situa in una nuova ottica che sollecita l'analisi delle relazioni che sono sempre intercorse tra loro. Il corpo ha continuato a comunicare informazioni consce e inconsce al di là e insieme alla parola, nonostante non fosse riconosciuto ufficialmente” . Ad integrazione di quanto afferma Mariella Combi, è uno studio classico su analfabetismo e potere, recentemente ripubblicato da Meltemi, Né leggere né scrivere di Harrison e Callari Galli.

I due autori affermano: “La parola-suono, per l'istruito, è destinata, prima o dopo - ma sempre e inevitabilmente -, a diventare scritta, è destinata all'occhio e quando l'istruito pensa, pensa ad immagini: le parole pensate sono pensate già graficamente, pronte per essere scritte. Quando l'analfabeta pensa, pensa a dei suoni, e la sua parola è destinata all'orecchio. L’istruito ha il dizionario, l’analfabeta ha la memoria. Nella scrittura, ogni parola coinvolge la successione, si lega ad essa e deve esserle coerente. La parola-suono può vivere da sola: le basta l'intonazione per essere chiara; ed è col gesto che deve essere coerente: col gesto e col viso e con la situazione. La parola-suono coinvolge non le altre parole, ma, con l’udito, gli altri sensi; e con la totalità dell'essere, la totalità del gruppo sociale”.

Artaud, durante i nove anni di internamento in manicomio, arriva a prefigurare la necessità di una lingua per tutti, anzi, da un certo momento in poi, afferma di scrivere per gli analfabeti: è il momento in cui seguirà in volo i suoni delle parole e li cercherà di catturare sulla carta o nella registrazione fonica. La lingua di Artaud ancora oggi, anche in ambienti accademici, viene rifiutata perché definita la lingua dei folli e dei bambini: se Artaud fosse ancora vivo sarebbe sicuramente felice di questa denigrazione, perché proprio alla lingua dei folli e dei bambini egli voleva arrivare.

Il percorso del progetto “Pinocchio nel paese delle meraviglie” si è arenato a questo punto, è deflagrato sul palcoscenico in un grido di rabbia e solitudine. Ora, si sta tentando un altro palcoscenico, quello di Internet: ecco allora un sito in cui provare a gridare e a giocarsi la propria specifica, inimitabile e meravigliosa diversità. Ma come non annegare nel mare “virtuale”? È veramente possibile l’incontro e lo scambio di milioni di diversità? Oppure sono necessarie guerre, carestie provocate, incidenti stradali per diminuire la ricchezza umana dell’umanità? E si sta dando voce a chi non l’ha mai avuta o, come sempre, si sta parlando a nome di altri?


ASSOCIAZIONE VOLONTARI “IL CAVALLO BIANCO”

Via Francesco Valesio, 28 – 00179 Roma
Sito Internet: www.ilcavallobianco.it
E-mail: info@ilcavallobianco.it oppure cavallo.bianco@inwind.it



 
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Giovanni Sansone
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