Il problema energetico è solubile. Sul lunghissimo termine. Basta
solo darsi da fare.
Quando Henri Becquerel poco più di un
secolo fa nel suo laboratorio di Parigi
notò che delle lastre fotografiche chiuse
in carta nera venivano impressionate per la presenza
esterna di sali di uranio, non sospettava
lontanamente che questa fortuita osservazione
avrebbe portato l’umanità così lontano. Un
primo studio delle proprietà di questa “azione”
mostrò che si poteva assimilare ad una radiazione
sia pur con caratteristiche inquietanti. Non
nasceva dalla chimica del prodotto, cui era indifferente,
ma emergeva dagli inferi della materia e
pareva inesauribile: di certo nei tempi del laboratorio,
ma inevitabilmente nei milioni di anni
del minerale.
La cosa fece colpo scientificamente e Becquerel si
prese il Nobel pochi anni dopo insieme ai coniugi
Curie che avevano esplorato la chimica dei
minerali. Una spessa linea di ricerca partì per elucidare
le curiosissime proprietà di queste “radiazioni”
e si arrivò presto a concludere che nascevano
dai nuclei degli atomi e che si trattava di
fenomeni in cui le energie in gioco erano milioni
di volte più grandi di quelle chimiche che si
liberano ad esempio nella combustione del carbone.
Se solo si fossero potute controllare l’umanità
avrebbe potuto contare su qualcosa di
molto più potente del carbone allora scavato con
picche e picconi da un nugolo di disperati a
costo spesso della loro vita.
L’idea così seducente girava nel retrocranio dei
ricercatori che, si sa, perseguono la conoscenza
ma non sono insensibili alla gloria, specie a quella
per loro suprema del premio Nobel. La soluzione
in effetti venne, negli anni ’30 e di Nobel
ne produsse due. Enrico Fermi scoprì una nuova specie di queste radiazioni, il neutrone, e Lisa
Meitner che se il detto neutrone si infila in un
nucleo di Uranio, questo esplode.
La chiave della
soluzione è nel fatto che tra i frammenti di questa
esplosione ci sono più o meno tre neutroni
che permettono di continuare il gioco in una
specie di catena di santantonio.
L’operazione è semplice in principio, ma molto
complessa poi in pratica e fu di nuovo Enrico
Fermi, grande fisico e scaltro ingegnere, a condurre
in porto la prima realizzazione, nel sottoscala
di uno stadio di Chicago pochissimi anni
dopo, nel 1942. Uno dei problemi di questa realizzazione
è di tenere la catena sotto controllo
affinché l’energia si liberi progressivamente e
non dia luogo ad una esplosione. Ci fu molto
batticuore, ma la cosa riuscì. Inevitabilmente ci
fu anche chi pensò a ritroso che si potevano realizzare
le condizioni per una catena velocissima,
che generasse dunque una esplosione. Anche
questa linea fu ricercata ed in brevissimo tempo,
già nel 1945, la prima bomba atomica venne
fatta esplodere nel deserto americano ad
Alamogordo.
In soli 50 anni, a partire da una lastra fotografica
che era rimasta impressionata quando non
avrebbe dovuto esserlo, si è arrivati a delle tecnologie
di enorme importanza economica e geopolitica
che stanno influenzando quintessenzialmente
la storia dell’umanità. Si potrebbe dire
che l’uomo ha riscoperto il fuoco, ma milioni di
volte più potente e soprattutto inesauribile. Un
grande balzo in avanti come quello degli esseri
viventi, che nati nelle profondità della chimica
terrestre, hanno scoperto il sole con la clorofilla che ne imprigiona l’energia.
Visto che si era in tempo di guerra le
applicazioni militari ebbero la precedenza,
le bombe da tirar sul cranio dei
Giapponesi per convincerli a piantar di
far la guerra ed i motori per i sottomarini
che non avrebbero più dovuto
ansimare su e giù con i loro diesel puzzoni
e le loro mefitiche batterie.
Le due
cose ebbero successo, i Giapponesi si
convinsero ed i sottomarini possono
ora stare sott’acqua quanto vogliono se
l’equipaggio resiste. I reattori nucleari
dei sottomarini hanno poi avuto un
seguito, essendo nati per primi e, funzionando
bene, hanno figliato le centrali
nucleari, dove le reazioni di fissione
a catena dell’uranio vengono usate
per produrre vapore e finalmente energia
elettrica.
Finita la guerra ci fu una corsa all’energia
nucleare per la produzione di energia
elettrica. Ad oggi in effetti più di
quattrocento centrali sono state
costruite e sono quasi tutte ancora in
operazione. Si tratta, tutto sommato, di
macchine semplici nella loro parte
meccanica e costruite senza economia.
Di fatto un certo numero di loro, negli
Stati Uniti, dopo aver finito la carriera
canonica di 25 anni, sono state ricertificate
per altri venti con grande chagrin
dei verdi che sperano almeno nella
morte naturale di queste creazioni
demoniache.
Si da però il caso che i
gestori di queste macchine che producono
i chilowattora a costi stracciati le
vedono come delle rotative per stampar
soldi e non hanno nessuna intenzione
di staccarsene. Anche in paesi
verdissimi come la Svezia e la
Germania, malgrado leggi e gride, son
tutte lì a macinar miliardi di chilowattora.
E di euro. L’Italia con ambiguità
machiavellica ha cinque centrali astutamente
delocalizzate in Francia.
Rendono.
E’ vero che la costruzione di nuove
centrali si è esaurita negli anni novanta
ed i verdi attribuiscono a sé stessi il
merito di questa prodezza, che tutto
sommato, ci inchioda alle follie delle
politiche petrolifere; ma i meccanismi
di questo fatto sono legati a processi di
più largo respiro e apparentemente
dotati di volontà propria, cioè incontrollabili:
i cicli di Kondratiev. Senza
entrare più di tanto negli intrichi di questi cicli, dirò che durano circa 55
anni, metà in configurazione boom e
metà in configurazione recessiva, con
intensità che variano progressivamente
nei due sensi. In questo momento
siamo vicini al fondo anche se dalla
parte della risalita. Una delle caratteristiche
della fase recessiva è che tutto,
un pò alla volta, smette di crescere, la
produzione di auto, di acciaio, di elettricità
e magari anche di uova di pasqua.
E’ tutto il Prodotto Nazionale
Lordo, completamente regolato su questi
cicli, che smette di crescere.
Sincronizzati a livello mondiale.
E’ un
mistero di umori collettivi che ho studiato
per molti anni senza poterne
sciogliere il nodo.
Quasi tutte le cose che smettono di crescere
alla fine di un ciclo, ripartono poi
con il successivo. Prendiamo una cosa
visibile a tutti, l’auto, andata in saturazione
a circa 40 milioni di auto circolanti
negli anni ’30, ripartita vigorosamente
dopo la guerra e, 55 anni dopo,
saturata di nuovo ma a circa 400 milioni,
usando cifre rotonde da ricordare.
La Francia ha costruito a suo tempo
reattori nucleari a tavoletta ed oggi produce
nuclearmente l’80% della sua
elettricità. Si può considerare come un
limite di sistema perché non conviene
usare le grandi macchine per seguire i
capricci del carico. Poiché nel mondo
oggi solo il 20% dell’elettricità viene
prodotto nuclearmente, anche nell’ipotesi
di consumi costanti si potrebbero
ancora costruire mille grandi centrali
per coprire tutto il mercato accessibile.
Di certo sarebbe una bella frustata per
l’industria mondiale, da sognar di
notte in un periodo di stanca come
questo, e si potrebbe facilmente finanziare
il processo stringendo un pò il
fiume di soldi che passiamo agli sceicchi,
ma il sistema sembra vincolato ad
irrazionalità difficili da sradicare.
Anche perché ci sono delle razionalità
di profitto settoriale che difendono i
loro privilegi.
La fase di morbida del
ciclo sta però arrivando.
Di certo anche i verdi ed assimilati non
perdono occasione per gridare al lupo,
anche se quaranta anni di energia
nucleare hanno fatto un millesimo dei
morti che avrebbe prodotto il carbone
ad energia equivalente. Ma una demonizzazione iniziale è d’altronde il destino
di tutte le nuove tecnologie. In uno
studio che ho fatto appunto sul soggetto
ho raccolto documenti d’epoca i più
esilaranti, se letti oggi, ad esempio sulle
ferrovie. I cui rami secchi, oggi, vengono
difesi dal popolo, sindaci con fascia
tricolore in testa.
Il petrolio e i suoi derivati, si sa, inquinano,
sia lasciando una scia nera dove
passano, sia all’uso finale con emissioni
variamente nocive, e che sarebbe
assai opportuno evitare. Fare energia
elettrica soltanto con il nucleare non ci
salva però dall’inquinamento e dai
costosi monopoli. Il punto è che solo
una parte dell’energia primaria finisce
in elettricità, diciamo salomonicamente
la metà, sia pure in prospettiva.
L’altra metà va un pò dappertutto,
principalmente nei trasporti. Poiché
i consumi energetici negli ultimi due secoli sono raddoppiati ogni 30 anni e
tenendo conto che l’umanità emergente,
il grosso, vorrà l’emersione totale
prima o poi, si può fondatamente ipotizzare
che questi raddoppi dureranno
ancora per un secolo o due. Però al raddoppio,
la metà dell’energia che non
andava in elettricità raddoppia, così
che ci ritroviamo al nastro di partenza.
A meno di non trovare un modo affinché
tutta o quasi l’energia che viene
usata dal consumatore finale venga
prodotta a partire dalla fonte nucleare.
E’ questo l’argomento che negli anni sessanta mi portò a proporre l’uso
dell’energia nucleare per produrre
idrogeno decomponendo l’acqua.
Esattamente quello che fa la clorofilla
da due miliardi di anni. L’idrogeno è
un vettore energetico estremamente
flessibile che può venir usato in sostituzione
di qualsiasi combustibile, spesso
con molti vantaggi. Nacque allora la
dizione”Hydrogen economy” che contempla
un sistema di reattori nucleari
che alimentano gli elettrodotti e gli
idrogenodotti. I combustibili fossili e
tutti i problemi connessi, inclusi quelli
geopolitici potrebbero allora andare in
pensione.
E’ vero che così si risolvono i problemi
del petrolio, se ne creano però altri che
cercammo di risolvere. Intanto dove
localizzare i centri di produzione dell’idrogeno.
L’idrogeno ha una trasportabilità
comparabile a quella del metano.
Usando delle pipeline dunque è possibile
decentrare la produzione anche a
migliaia di chilometri dalle aree di consumo.
E per le stesse ragioni è possibile
concentrare in pochi siti la potenza
nucleare necessaria. In una configurazione
estrema mettemmo i reattori
nelle isole del Pacifico, trasportando
l’idrogeno in forma liquida con navi
idrogeniere con tecnologia quasi identica
a quelle delle navi metaniere attuali.
Tanto per dare un’idea della scala,
una di queste isole esporterebbe l’equivalente
energetico del Medio Oriente.
La decomposizione dell’acqua avverrebbe
usando il calore nucleare in processi
chimici che sviluppammo inizialmente
nei miei laboratori negli anni
’70 e che sono stati portati oggi dai
Giapponesi praticamente a maturità
industriale.
Tutti sembrano aver furia
ma il sistema si muove molto lentamente.
Un processo di sostituzione di
una energia primaria, ad esempio il
petrolio che sostituisce il carbone,
richiede 100 anni. Il trasporto e la
distribuzione avverrebbe in analogia
con il metano, usando la stessa rete. Il
metano ha d’altronde sostituito l’idrogeno
che era la componente principale
del vecchio gas di città. Le auto possono
usarlo al meglio diventando elettriche.
Le pile a combustibile che nicchiano
nei laboratori da cento anni, funzionano
benissimo con l’idrogeno producendo
elettricità con grande efficienza. Quasi tutti i fabbricanti di auto
sono in lizza per produrne una che
vada bene per il consumatore. Le
Mercedes di classe A si ribaltavano perché
erano progettate per ospitare le
celle a combustibile nei doppi fondi. La
Airbus lavora ad un progetto di aereo
che usi idrogeno liquido al posto del
cherosene.
Con la truppa che si sta muovendo
verso l’idrogeno, i Giapponesi che
sanno farlo con l’energia nucleare sono
la punta di diamante del sistema in
fieri. E va discussa la soluzione dei problemi
interni di un nucleare così esteso.
Intanto il procurarsi l’uranio necessario,
finchè si resta nei reattori correnti.
Quando proposi l’isola energetica in
un tour pastorale che feci in Giappone
nel 1973 calcolai per curiosità quanto
uranio è contenuto nell’acqua di mare
che serve per il raffreddamento degli
impianti di produzione dell’idrogeno.
Il mare, si sa, contiene disciolto più di
quattro miliardi di tonnellate di uranio,
ma gli oceani sono grandi e la concentrazione
è di parti per milione.
Cionondimeno trovai che l’acqua di
raffreddamento ne contiene dieci volte
di più di quello consumato dai reattori.
Il nucleare è parco di materia. Basta
dunque metter una rete e pescarlo. Per
farla breve, gli operosi giapponesi
hanno ora tre processi diversi per
estrarre questo uranio a costi compatibili
con l’operazione isola energetica di
cui stiamo parlando. Poiché l’acqua del
Pacifico risale ad una velocità media di
un metro all’anno, per quattromila
anni avremo acqua vergine, poi chi
vivrà vedrà. Per chi si preoccupa del
futuro lontano ho anche una soluzione
per un miliardo di anni.
L’altro problema è quello delle cosiddette
scorie radioattive.
Qui c’è una
soluzione semplice che consiste nel
lasciare gli elementi di combustibile
esauriti in magazzini sotto il reattore
stesso. Come detto, il nucleare è parco
di materia e gli elementi di combustibile
consumati in cinquanta anni richiedono
un volume di stoccaggio compatibile
con le dimensioni degli edifici del
reattore. Con i miei ingegneri ci divertimmo
a definirne uno, fra l’altro raffreddato
a circolazione naturale d’aria. Facemmo anche esperimenti. Funziona
passivamente, da solo, anche dopo la
scomparsa del genere umano. Se però si
vuole fare il cosiddetto reprocessing per
estrarre da questi elementi di combustibile
il prezioso plutonio o l’uranio,
da riutilizzare eventualmente in altri
reattori, allora ci si ritrova sul gobbo
una massa di materiale superradioattivo
che bisogna mettere al sicuro. Oggi,
essendo le masse relativamente piccole,
si usano sistemi complicatissimi con
stoccaggi in miniera e simili, ma soluzioni
più semplici sono possibili.
Prendendo lo spunto da studi della
NASA che si chiedeva cosa sarebbe successo
se, per il fallimento di un lancio,
una capsula di isotopi radioattivi usati
per produrre energia elettrica nel satellite
fosse ricaduta a terra, calcolammo
le caratteristiche di un contenitore di
prodotti di fissione che, messo sotto
terra, la riscaldi abbastanza per fonderla.
A questo punto il contenitore essendo
più denso comincia ad affondare ed
il processo continua finché la radioattività
è sufficiente. Calcolammo che con
contenitori e contenuti fattibili il tutto
può scendere fino a 15 o 20 chilometri
di profondità, abbastanza per non nuocere
più. Spendemmo poi qualche
miliardo di vecchie lire per sperimentare
il processo in vivo usando immensi
blocchi di salgemma portati espressamente
dalla Sicilia. Tutti i conti tornano.
Così la nostra isola energetica è
stata dotata della sua discarica radioattiva.
Nulla si importa salvo le macchine
e nulla si esporta salvo l’idrogeno
liquido. Un sistema da favola da far
verde di rabbia il verde più accanito.
Anzi mi presi lo sfizio di “cancellare”
dalla superficie del mare la macchia termica
degli scarichi delle acque di raffreddamento.
Questa acqua viene
pompata da, diciamo, 500 metri di profondità
dove la temperatura può essere
di 5° e la ributtiamo a mare alla temperatura
di superficie, diciamo di 25°. Et
voilà.
Il gran disegno è stato tracciato. Le tecniche
ci sono ed anche l’economia.
L’attrito di distacco è grande, ma molti
si agitano nella direzione giusta. Pure il
Kondratiev soffia bene e meglio soffierà
tra poco quando l’economia ripartirà.
Il problema energetico è dunque
solubile. Sul lunghissimo termine.
Basta solo darsi da fare.