La rilevante attenzione alla persona costituisce un
aspetto caratteristico della medicina riabilitativa
e dipende dall’elevata componente umanitaristica
presente nell’approccio sanitario: in tal modo
si viene a creare, tra paziente ed operatori sanitari,
un rapporto di particolare intensità e ad alta
efficacia ‘cicatrizzante’. I problemi fisici
e le conseguenti difficoltà psicologiche del
paziente determinano le modalità del trattamento
(i primi) e le reazioni del personale di cura (le seconde)
che partecipano a realizzare l’atmosfera tipica
dell’ambiente riabilitativo e ad influenzare positivamente
l’efficacia dei programmi di riabilitazione.
La medicina riabilitativa è una branca specialistica
della medicina particolarmente dinamica e creativa:
è la scienza che aiuta i pazienti a superare
i problemi funzionali determinati da malattie e da gravi
lesioni traumatiche. Nella seconda metà del secolo
appena concluso si è verificato in questo campo
uno sviluppo culturale ad andamento esponenziale al
quale hanno corrisposto, negli ultimi 20 anni, miglioramenti
tecnici ed organizzativi di particolare rilievo: dalla
fisioterapia come supporto sintomatico, spesso generico
e palliativo, si è passati alla medicina riabilitativa
come insieme di modalità specifiche di valutazione,
trattamenti mirati, a dosaggio preciso, con obiettivi
definiti e risultati documentati.
Un efficace programma riabilitativo richiede l’impegno
di un gruppo ben coordinato del quale fanno parte medici
fisiatri e consulenti di altre branche specialistiche
nonché operatori paramedici (terapisti della
riabilitazione, logopedisti, infermieri professionali,
personale ausiliario specificamente addestrato) integrati
da psicologo, assistente sociale, tecnico ortopedico,
dietista. Ciò comporta non raramente una relativa
complessità del programma riabilitativo, con
costi non trascurabili per l’impegno prevalente
e rilevante di persone piuttosto che di apparecchiature:
ne derivano necessità di gestione oculata e possibilità
di migliorare l’efficacia degli interventi migliorando
la preparazione degli operatori.
I momenti successivi del percorso di riabilitazione
medica sono rappresentati da:
- approfondimento della diagnosi (quando necessario),
- definizione della prognosi riabilitativa
a medio e lungo termine con formulazione del programma
di trattamento e della sequenza di obiettivi da raggiungere
(semplici e più complessi, a breve scadenza o
in prospettiva più lunga),
- attuazione progressiva dei programmi
di trattamento,
- definizione degli ausili eventualmente
necessari,
- successive verifiche di efficacia
dei trattamenti e delle soluzioni funzionali ottenute,
- regolari e periodici controlli (clinici,
funzionali, strumentali) per seguire l’evoluzione
nel tempo e per attuare in modo tempestivo gli eventuali
provvedimenti che divenissero necessari.
Gli obiettivi ragionevoli di un programma riabilitativo
sono costituiti non tanto dalla guarigione quanto dal
reinserimento nel contesto di origine, reso possibile
oltre che dall’incremento delle abilità
funzionali dell’individuo, dalla definizione degli
ausili necessari per recuperare livelli crescenti di
autonomia e migliorare la qualità della vita
e dall’adeguamento culturale delle persone ed
organizzativo dell’ambiente (familiare, sociale,
lavorativo) che accoglieranno il soggetto dopo la dimissione.
I traguardi (offrire al paziente la possibilità
di vivere di nuovo e l’opportunità di vivere
meglio) saranno raggiungibili con la definizione di
eventuali soluzioni alternative ed in funzione della
situazione clinica individuale e del contesto familiare
e sociale.
La medicina riabilitativa si differenzia per molti aspetti
dalle altre branche mediche e chirurgiche: uno di questi
è il tipo di approccio sanitario. Con questo
termine si intende un insieme ampio di elementi che,
a partire dalle basi culturali e dall’orientamento
generale si allarga agli obiettivi sottesi coinvolgendo
i ruoli del medico e del paziente nonché i rapporti
interpersonali che si creano tra medico e paziente,
tra medico e staff, tra colleghi medici.
L’approccio sanitario può essere di tipo
scientifico o umanitaristico: il primo si fonda su di
un insieme di conoscenze in rapida espansione e continuo
sviluppo derivanti da ricerche riproducibili e verificabili,
è empirico in quanto fondato su prove, razionale
e quantitativo e comprende sia le informazioni provenienti
dalle scienze di base che le capacità necessarie
per applicare tali informazioni nella clinica per diagnosticare
e curare, oltre che prevenire, condizioni patologiche.
Storicamente, l’approccio sanitario scientifico
è andato sviluppandosi nel ventesimo secolo per
divenire forza dominante nella moderna medicina.
L’approccio sanitario umanitaristico è
rappresentato invece dall’ampio accumulo di esperienze
e conoscenze che si è costituito nei secoli,
nelle varie culture e nel corso degli eventi della vita
di ogni individuo: è soggettivo, intuitivo ed
empatico venendo a comprendere le abilità di
interazione personale e di interessamento ‘curativo’
che caratterizzano la migliore tradizione dei guaritori
in tutte le società ed in ogni tempo. L’approccio
sanitario umanitaristico, è stato la forza dominante
nella medicina fino alla fine del XIX secolo per poi
cedere il passo, lentamente ma progressivamente, alla
medicina scientifica fino a giungere ai tempi nostri.
In un certo senso, durante il XX secolo, il pendolo
ha oscillato dall’estremo umanitaristico a quello
scientifico.
L’approccio scientifico è orientato sulla
malattia come evento biologico (interazione di un processo
patologico con le molecole, con le cellule, con gli
organi di un individuo), mentre quello umanitaristico
si interessa all’essere malato e alla condizione
di malattia come evento umano (interazione tra persona
e malattia).
Il primo è impegnato a curare la malattia, a
migliorare la funzione fisiologica mentre il secondo
punta a sanare la persona ed a migliorare le sue capacità
funzionali (dove curare si definisce come rimuovere
o invertire l’andamento di un processo di malattia
mentre sanare sta per ridurre le difficoltà e
migliorare il senso di benessere fisico e psicologico).
Sia per il paziente che per il personale sanitario il
sanare implica un processo con maggiori componenti di
attività mentre il curare è praticabile
su di un soggetto passivo. Sanare dunque non esclude
curare ma va oltre ed include il prendersi cura.
Il paziente riveste un ruolo passivo nell’approccio
scientifico e attivo in quello umanitaristico ed ancora,
mentre nel primo il medico è colui che conosce
e colui che fa, nel secondo diviene colui che insegna
(ed impara nello stesso tempo). Di conseguenza anche
i rapporti interpersonali sono diversi: la relazione
tra medico e paziente è riservata nell’approccio
scientifico ed empatica in quello umanitaristico, la
relazione tra medico e staff sanitario è di tipo
dominante nell’approccio scientifico e facilitativa
in quello umanitaristico, la relazione tra medico e
colleghi è di tipo competitivo nell’approccio
scientifico e collaborativo in quello umanitaristico.
Tutte queste considerazioni che fanno risaltare le differenze
numerose ed importanti tra i due tipi di approccio sanitario
non vogliono costituire un giudizio di maggiore/minore
validità. Entrambe le componenti, scientifica
e umanitaristica, sono importanti per realizzare l’approccio
sanitario ottimale ed entrambe sono necessarie in un
sistema che sappia riconoscere i valori ed i limiti
di ciascuna di esse. Per altro, sebbene ogni medico
possa praticare una miscela di medicina umanitaristica
e scientifica, nel campo d’azione della riabilitazione
medica si viene a creare un terreno particolarmente
adatto per il raggiungimento dell’equilibrio ottimale
di queste componenti. Fin dal suo esordio la filosofia
della medicina riabilitativa è stata decisamente
orientata verso l’approccio umanitaristico mentre
nel contempo si è andata sviluppando una sempre
più larga e solida base di tipo scientifico con
radicate fondamenta nel campo della ricerca. Per la
realizzazione di un valido contesto riabilitativo, oltre
alle competenze tecniche e scientifiche, il personale
di assistenza e cura deve possedere particolari qualità
per poter fornire risposte adeguate sia sul piano emotivo
che su quello comportamentale alle problematiche dei
pazienti. Coloro che partecipano a costituire l’ambiente
riabilitativo dovrebbero, tra altre numerose prerogative
personali e professionali, possedere sia capacità
compassionevole (sentire pena per chi soffre e sentirsi
spinti ad aiutare) che inclinazione a prendersi cura
di chi si trova in difficoltà (interessarsi ai
problemi e cercare la loro soluzione).
Nei termini citati sono presenti e uniti i concetti
di sensazione e azione, essenziali per la realizzazione
dell’ambiente risanante, dove venga dato conforto
psicologico oltre che terapia, dove si offra nutrimento
al corpo ma anche sostegno morale, insegnamento e rieducazione.
Gesti cortesi e parole gentili, comprensione ed empatia
sono componenti importanti dell’interazione intensa
e complessa che si realizza tra la persona malata e
coloro che lo devono curare ed assistere, tra chi sente
il proprio corpo ‘rotto’ ed invalido e chi
ha anche il compito di rispondere a queste sensazioni,
di alleviare le sofferenze, di riaggiustare, rimettere
insieme, guarire.
Nel corso del processo di riabilitazione, le problematiche
fisiche e psicologiche che affliggono il paziente (calo
di autostima, sofferenza e isolamento,
dipendenza dagli altri, insicurezza, dolore morale)
determinano le reazioni del personale di cura le quali,
a loro volta, partecipano in modo determinante a creare
l’atmosfera cicatrizzante dell’ambiente
riabilitativo.
Quando il paziente è colpito da una importante
perdita fisica e psicologica, come un’amputazione,
una paralisi, un deficit funzionale importante (del
cammino, del controllo sfinterico) va incontro ad un
brusco cambiamento della propria immagine corporea che
si accompagna con un calo dell’autostima.
Poiché il corpo influenza in modo importante
la personalità, sulla base di come è (aspetto
esteriore) e di come funziona, quando per un incidente
od una malattia si verificano cambiamenti irreversibili
l’autostima precipita e ci si sente inutili e
rotti, senza possibilità di recupero.
Sul versante del personale di cura (infermieri, ausiliari,
terapisti) esistono indicazioni precise circa gli interventi
di primo livello: girare il paziente, nutrirlo, pulirlo,
esercitarlo.
Più complesso però è il contatto
con la persona ‘ferita’, in difficoltà,
la cui autostima sia scossa: a queste lesioni psicologiche,
gli operatori sanitari si accostano con sensazioni proprie
di perdita, dolore e pena e la loro capacità
di comprensione e partecipazione è il motore
che determina migliaia di atti disinteressati di compassione
e di attenzione curativa. Sulla base della propria esperienza
il personale riconosce i punti dolenti (sul piano psicologico),
può fare domande senza rischiare di essere indiscreto
e sa che con il tempo ci saranno possibilità
di recupero: in tal modo il paziente riceve segnali
di fiducia e messaggi di accettazione, la sua persona
viene ‘convalidata’ all’interno del
suo corpo spezzato e questa testimonianza fa sì
che egli possa dire “se tu mi puoi accettare comunque
e qualunque ferita io abbia, allora forse – forse
– io stesso mi potrei accettare”.
Altri problemi che il paziente deve spesso affrontare
sono quelli del dolore, sia sul piano fisico che su
quello psicologico e dell’isolamento (sofferenza
e isolamento). Mentre non è difficile immaginare
il caso di una giovane che abbia perduto l’uso
degli arti a causa di un incidente stradale è
praticamente impossibile riuscire a comprendere le sue
sensazioni di perdita fisica ed il devastante cambiamento
della sua immagine corporea. Se tale comprensione eccede
le nostre capacità e possibilità come
potremmo renderci conto del suo dolore emotivo, delle
sue sensazioni di isolamento e di incommensurabile disperazione?
Anche se questo esempio può sembrare estremo
serve comunque a chiarire come sia difficile classificare
e misurare, oltre ai parametri anatomici, la gravità
delle perdite e conseguentemente quanto dolore possa
essere giustificato perché il mistero della sofferenza
è senza fondo.
Le reazioni del personale sanitario a queste situazioni
di dolore e sofferenza sono difficilmente standardizzabili,
dosabili e classificabili in modo ‘scientifico’
in quanto contengono una componente variabile di partecipazione
individuale correlata con l’esperienza personale
e soggettiva. Tutti noi abbiamo la convinta sensazione
di aver sofferto, in un modo o nell’altro, nel
corso della nostra vita e di aver passato momenti in
cui sentivamo che la nostra sofferenza era peggiore
di ogni altra cosa. Sicuramente ci sono stati momenti
nei quali siamo stati sommersi da potenti sentimenti
ed emozioni - odio, frustrazione, amarezza – viste
spesso in un’ottica negativa ma costituenti una
specie di difesa che ci consente di confrontarci e di
convivere con le nostre paure, le nostre notti buie,
i nostri fantasmi di morte. A contatto con questi pazienti,
ci sentiamo per un istante in quel letto o in quella
carrozzina; alcune persone provano, almeno a livello
subconscio, la sofferenza altrui.
Per la natura di quanto si verifica nell’ambiente
riabilitativo, giorno dopo giorno, mattino - pomeriggio
- sera - notte, è inevitabile che l’isolamento
fisico diminuisca. I pazienti hanno un programma da
rispettare: devono essere alzati dal letto e vestiti,
devono essere alimentati, devono andare dal reparto
di degenza agli spazi di terapia; la riabilitazione
è per buona parte un processo fisico e comporta
una grande quantità di contatti fisici diretti
ed ‘intensi’. Le nostre abitudini sociali
non prevedono una particolare abbondanza di contatti
ravvicinati ed abbracci anche se tali manifestazioni,
tra parenti ed amici, possono assumere un significato
importante. Quando un’infermiera aiuta un paziente
a raddrizzarsi in carrozzina o quando un terapista lo
assiste nel mettersi in piedi, gli mobilizza un arto
o gli manipola la schiena… tutti questi ‘toccamenti’
costituiscono una sorta di abbraccio. C’è
trasmissione di calore attraverso il contatto fisico,
c’è la sensazione dell’energia del
personale di cura trasmessa dalla mano che lavora il
corpo del paziente. Questo contatto da persona a persona
rompe, almeno momentaneamente, l’isolamento e
serve come una salutare trasfusione di energia e questi
episodi non sono saltuari ma si verificano in molte
occasioni durante la giornata. Se si pensa che i componenti
del team riabilitativo sono per lo più giovani
e vibranti di energia, con l’atteggiamento ottimistico
del si può fare e ampia disponibilità
a sorridere non è strano che i pazienti ritornino
dal trattamento dicendo di sentirsi meglio.
Oltre ai contatti corporei, il personale di assistenza
e cura offre ampie possibilità di ascolto alle
voci di dolore e di angoscia, di paura e confusione
che originano dalle profondità del paziente.
Talvolta il personale ascolta senza rispondere, conoscendo
il valore terapeutico del parlare e perché l’ascolto
è un modo di affermare che ciò che sente
il paziente è comprensibile e naturale. Il paziente
può fare le stesse domande, avere gli stessi
dubbi, raccontare la propria storia centinaia di volte
e dimostrare il proprio dolore in moltissimi modi. Egli
cerca di parlare con tutti quelli che l’avvicinano
dal medico all’infermiere, dal terapista al personale
ausiliario, dagli altri pazienti ai semplici visitatori.
In un modo o nell’altro tutte queste persone appartengono,
almeno temporaneamente al contesto riabilitativo ed
ogni contatto può avere positività terapeutica:
persone anziane e giovani, della stessa o di diverse
estrazioni culturali, sociali ed economiche. Si tratta
di una straordinaria miscela che fa parte dell’insieme
riabilitativo, magico e potente ma ovviamente difficile
da studiare e da verificare in modo scientifico per
come e per quanto funziona.
La perdita di autonomia da parte del paziente determina,
in modo inimmaginabile e drammatico, un aumento della
dipendenza dagli altri accompagnata
da insicurezza: a causa della malattia
o dell’incidente improvviso egli non riesce a
portare il cibo alla bocca, a controllare l’emissione
di urine e feci, ad evitare di sporcare le lenzuola.
Si verifica una sorta di ritorno allo stato infantile
e molti ruoli sociali nella famiglia, nel campo lavorativo,
nella comunità vengono perduti o subiscono modifiche.
Il passato assume un valore sproporzionato nella vita
del soggetto che spesso viene colto a dire “…io
ero così…,…io potevo fare questo…,
…questo era il mio reale modo di essere…”
, mostra sue fotografie che lo ritraggono in momenti
felici, in occasione del matrimonio, durante una vacanza,
nella pratica di attività sportive: i sorrisi
dei tempi in cui la salute era un giorno di sole senza
fine mentre ora il futuro è insicuro ed i sogni
sono velati di incertezza con i sorrisi forse svaniti
per sempre.
In questi casi, per il personale di cura è quasi
impossibile evitare di provare un po’ di rabbia,
di risentimento, di depressione: perché è
andato a cercarsi l’incidente? Non poteva stare
più attento? Guarda che lavoro mi tocca fare!
Io ho le mie preoccupazioni, i miei problemi, i miei
impegni.
Non saremmo umani se non provassimo queste forti emozioni,
d’altra parte, per avere compassione dobbiamo
riconoscere e dare risposte anche alle nostre personali
sensazioni di perdita e di sofferenza oltre che a quelle
del paziente: in tal modo passiamo dal sentimento all’azione,
dall’interessarsi al prendersi cura.
Poiché esiste un programma formale con un insieme
di cose da imparare, il paziente diventa un allievo,
uno studente e deve seguire un preciso calendario di
‘materie’ e di lezioni con relativi compiti:
il lunedì mattina impara come riconoscere le
infezioni delle vie urinarie, il martedì pomeriggio
vengono insegnati i trasferimenti dalla carrozzina,
il mercoledì mattina si discute sul come prevenire
le piaghe, il giovedì si fanno esercizi per mantenere
la muscolatura residua, il venerdì può
essere l’occasione di esercizi in piscina. Ogni
giorno si accumulano nuove informazioni, nuove abilità
vengono apprese ed i muscoli si rinforzano per riuscire
a svolgere specifiche funzioni. Ci si pongono obiettivi,
talvolta sono limitati e parziali come riuscire a mangiare
qualche boccone autonomamente o imparare quali istruzioni
dare agli altri per ottenere una valida assistenza negli
spostamenti ma si tratta sempre di obiettivi che contengono
un forte messaggio: stai facendo progressi, stai andando
avanti, sei meno dipendente ed un poco più autonomo.
Si tratta di un accumulo di potenza: conoscenza come
potenza, forza come potenza, indipendenza come potenza.
Certamente non è mai abbastanza, ognuno vuole
di più e purtroppo raramente si riesce a riportare
qualcuno al modello della persona nella foto del matrimonio.
Infine, oltre al dolore fisico ed alla sofferenza psicologica,
il paziente può andare incontro a situazioni
di dolore morale e spirituale. Si tratta
di un terreno dove è difficile offrire risposte
adeguate restando nell’ambito dell’assistenza
sanitaria. Le necessità ed il modo di rispondere
del paziente possono cambiare in funzione di diversi
fattori: età, esperienze di vita, supporto familiare,
basi culturali e religiose tanto per citarne alcune.
Indubbiamente molti soggetti, non sempre esplicitandolo,
avvertono in certe fasi del loro processo di riabilitazione
un senso di disperazione come se nulla potesse essere
fatto in direzione di un recupero almeno parziale. Questa
disperazione si mescola forse anche con senso di colpa
o vergogna per trasgressioni realmente compiute o immaginarie.
Quando uno si domanda “perché proprio a
me?” non può evitare di pensare alle sue
fantasie ed ai suoi desideri più segreti; per
la maggior parte degli individui queste sensazioni sono
collocate nelle profondità dell’animo e
non sono facilmente verbalizzabili a sé stessi
ed agli altri. Costituiscono il nucleo della persona,
ci si avvicina al sé trascendente , alla vita
dello spirito. Nessun paziente risponde allo stesso
modo in queste situazioni. Per alcuni il percorso riabilitativo
dopo una grave lesione corporea costituisce una esperienza
in grado di modificare il modo di sentire e di vivere
non tanto e non solo sul piano fisico ma anche e specialmente
su quello morale e spirituale: in qualche caso il cambiamento
è precoce, in altri casi tardivo, in altri ancora
non si verifica per nulla.
Questo aspetto della sofferenza del paziente è
quello più impegnativo per il personale sanitario
che dovrebbe tenersi in contatto con la propria spiritualità
e compiere un viaggio all’interno di sé
per raggiungere il livello della compassione. Come accade
per il paziente anche per il personale questo impegno,
questa crisi spirituale dipenderà da età,
esperienza, cultura e convinzioni religiose. Nella migliore
tradizione della pratica medica, la risposta non è
basata su un giudizio: anche se avessimo a che fare
con un delinquente, accusato di reati gravi, la nostra
risposta dovrà essere data non ad un criminale
ma ad un essere umano che si affida alla nostre mani.
Forse per la prima volta nella sua vita caotica e dissoluta
si trova circondato da persone che non vogliono il suo
male ma che professionalmente hanno scelto questo lavoro
e stanno accanto al suo letto cercando di mitigare i
suoi dolori e le sofferenze, di aiutarlo a ritrovare
le forze e la via per ricostruirgli una vita dignitosa.
A tutti va tesa una mano che deve significare “Vogliamo
lavorare con te non solo per tenere il dolore sotto
controllo o per insegnarti a spostarti con maggiore
indipendenza ma per aiutare la guarigione di tutte le
tue parti ferite e sanguinanti”.
Tra tutte le specialità mediche, la riabilitazione
cerca - seppure in modo imperfetto - di trattare l’intera
persona nelle sue componenti fisiche, emozionali, sociali
e spirituali (anche se minime sono le possibilità
di venire incontro ai bisogni spirituali). Per tutti
questi motivi la medicina riabilitativa costituisce
un modo ‘diverso’ di fare medicina, necessita
di operatori specificamente preparati sia scientificamente
che sul piano umanitaristico e deve svilupparsi sulla
base di modelli organizzativi particolari non del tutto
assimilabili a quelli delle altre specialità
mediche o, tanto meno, chirurgiche.
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