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La recente sentenza della corte costituzionale – 23 ottobre 2005 – conferma la validità dell’impianto della legge e ne garantisce stabilità e durata…
nche oggi torniamo a parlare di legge 40, ne ricordiamo alcuni aspetti critici che tuttora sfidano l’opinione pubblica e fanno sollevare ripetutamente il problema della sua revisione. Lo facciamo anche perché l’ultima delle sentenze della Corte costituzionale, ne ha confermato la validità dell’impianto, rispondendo ad un interrogativo drammatico posto da una coppia sarda affetta da una malattia genetica. Non è lecito fare selezione degli embrioni, sia pure attraverso test diagnostici preimpianto, perché questo implicherebbe un giudizio di valore sulla vita umana, stabilendo per legge chi ha diritto a vivere e chi no. La legge 40, come è noto, mentre apriva alle coppie sterili la possibilità di accedere alla procreazione medicalmente assistita, fissava alcuni principi chiari ed inequivocabili per tutti: il diritto alla vita di tutti gli embrioni e il dovere di impianto per tutti gli embrioni prodotti. E questo non perché non riconosceva la legittima aspirazione di ogni genitore ad avere un figlio sano, ma perché questo desiderio non è un diritto e perché la scienza è chiamata a risolvere i problemi dei malati, non ad eliminare i malati perché rappresentano un problema…


L’iter legislativo ::..

La legge 40, del 19 febbraio 2004: Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, si è posta fin dall’inizio come uno spartiacque di notevole impatto culturale, con una ampia ricaduta a livello personale, familiare e sociale. Ma anche a livello politico ha marcato una linea di frontiera che caratterizza in modo inequivocabile non tanto l’appartenenza ad uno piuttosto che ad un altro dei due schieramenti, quanto piuttosto la possibilità di riconoscersi in un core values del tutto trasversale, fortemente connotato nel suo ancoraggio alla tutela della vita e della famiglia.

L’iter della legge ha attraversato almeno tre legislature e il dibattito che l’ha preceduta, accompagnata e seguita ne testimonia il forte interesse, che va dal piano scientifico a quello giuridico, dal piano sociale a quello psicologico, dal piano etico a quello giornalistico.

Una legge che è stata sottoposta a un referendum abrogativo, in toto e in parte, a pochi mesi dalla sua promulgazione. La campagna referendaria, in ognuno dei due sensi, ha avuto nella pubblica opinione un impatto forte e stridente, che ha segnato differenze di valori, di stili e di appartenenze.

E’ stata promossa, prima ancora che a livello politico, da movimenti e associazioni che hanno opportunamente mobilitato larghe frange dell’opinione pubblica in una serie di cerchi concentrici, che solo in un secondo momento sono stati occupati da partiti e schieramenti diversi. Una campagna di formazione-informazione che ha visto impegnati gli schieramenti contrapposti e che quindi ha proposto ed ottenuto letture diverse, spesso contrastanti, animate da un desiderio di affermare valori, anche in questo caso in parte coincidenti e in parte contrastanti, con strategie decisamente diverse, quando non apertamente conflittive.


Il referendum
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Sono poche le leggi che negli ultimi decenni hanno coinvolto così profondamente tante persone, milioni di persone, chiedendo loro di esprimere un parere vincolante per la legittimazione e dando loro l’esatta dimensione delle implicazioni che questo parere avrebbe avuto. Tra queste la legge sul divorzio e la legge sull’aborto. Non a caso tutte e tre queste leggi che circoscrivono grandi temi della vita e della famiglia sono state seguite da un referendum, con un ampio coinvolgimento della popolazione e con effetti diversi. In questo caso il si alla vita è stato chiaro e determinante, anche perché preceduto da una grande operazione di formazione- informazione, che ha messo in primo piano, tra i valori di grande spessore laicale, quel principio di precauzione che tutela e garantisce ognuno di noi davanti a scelte politiche non sufficientemente fondate e spesso apertamente sconsiderate. Attraverso il Referendum, che ha seguito l’approvazione della legge, si è lanciata una operazione in cui al consenso informato richiesto ad ognuno per poter votare in un senso o nell’altro, si è voluta accompagnare una vera e propria campagna di sensibilizzazione, di informazione, e a modo suo di educazione alla vita, mettendo in evidenza l’aspetto multi-culturale e multidimensionale del problema. Una campagna in cui le diverse connotazioni etico-antropologiche hanno mostrato i possibili punti di convergenza, ma anche quei confini di un pensare e di un sentire, di un volere e di un giudicare, che non possono essere travalicati. Dalla diversità sperimentata giorno per giorno durante la campagna referendaria, nei rapporti informali e in quelli più strutturati, negli incontri ristretti e nei talk show televisivi, è scaturita la consapevolezza che la frontiera etica rappresenta la vera crucialità del nostro agire sul piano personale e politico.

E ognuno di noi è chiamato ad interpretare questa responsabilità con una formazione personale sempre più profonda e con una apertura al dialogo che senza far rinunciare alle proprie ragioni sappia però ascoltare quelle degli altri. La legge prima e il referendum dopo, hanno obbligato infatti a riflettere in modo nuovo su di una serie di esigenze profondamente connaturate alla natura umana, anche se lo stesso concetto di natura e di natura umana è stato al centro del dibattito con interpretazioni diverse che lo hanno di volta in volta affermato o negato, letto in chiave di assoluto logico e metodologico o più semplicemente di convenzionale e quindi relativo. Il diritto alla vita, il diritto ad essere madre e padre, il diritto alla salute, il diritto alla ricerca scientifica… hanno rappresentato gli spunti fondamentali per una riflessione sui diritti umani che ha appassionato l’opinione pubblica, senza barriere di cultura, di età, di appartenenza sociale, di identità etica o religiosa. Ogni volta sono stati interpellati vecchi e nuovi saperi disciplinari, in modo più sofisticato e rigoroso, ma anche in modo più lineare e divulgativo. Il dibattito che ha preceduto la approvazione della legge è stato lungo, ampio ed articolato, si è svolto nelle aule parlamentari e al di fuori delle stesse, ha richiesto un’ampia mediazione tra parlamentari con atteggiamenti diversi sia sul piano etico-culturale che su quello degli schieramenti politici. La maggioranza che ha approvato la legge è stata una maggioranza trasversale, unita più da una comune visione della vita e del suo valore, che non dalle strette convinzioni politiche. Una maggioranza convinta e consapevole, anche se non per questo ignara della complessità che l’applicazione della legge comportava sia sul piano clinico-scientifico che su quello socio-culturale.

Tutti hanno sentito in modo vivissimo che il loro giudizio e il loro consenso alla legge imponevano una mediazione, una sorta di compromesso con i propri valori. C’è solo la speranza, che nonostante tutto, si tratti della migliore mediazione possibile in quel contesto storico e in quelle concrete circostanze politico-parlamentari. Analogamente la maggioranza che ha difeso la legge attraverso l’astensione in occasione del Referendum abrogativo, è stata una maggioranza trasversale, eterogenea, fatta di persone impegnate a livello individuale o unite in gruppi di diversa capacità e valenza rappresentativa. In una apparente disorganizzazione, caratterizzata da pluralismo nelle idee e nelle appartenenze, con una istintiva resistenza a confluire in forme troppo strutturate di protesta, moltissime persone hanno sentito il bisogno di schierarsi dalla parte della legge. Si è creata nella percezione istintiva e spesso pre-razionale di moltissime persone una sorta di sovrapposizione di valori tra la vita, valore assoluto e pertanto intoccabile, e la legge 40, considerata come lo strumento che se ne faceva garante. Al di là di una comprensione esaustiva sia dei problemi sottesi alla legge che della stessa formulazione della legge, molte persone hanno voluto dichiarare il loro amore alla vita attraverso la difesa della legge. Si badi bene che non si è trattato di una semplificazione eccessiva, che ha indotto la confluenza del valore vita con il modello della legge 40, ma di una affermazione indiscussa di un valore che non si ritiene possibile manipolare in alcun modo, perché prioritario in senso logico e cronologico, etico e culturale.


Bio-etica e biopolitica: una relazione nuova e innovativa
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Nel dibattito che ha preceduto, accompagnato e seguito sia la approvazione della Legge 40 che il referendum, tutti sono stati invitati a partecipare. E tutti lo hanno fatto mettendosi in gioco sia come persone, con una propria visione della vita, con una serie di valori radicati nella propria storia personale e nelle proprie convinzioni, che come professionisti, impegnati negli ambiti più diversi di una vita lavorativa, che trasmette stimoli e suggestioni, prospetta problemi e come spesso accade apre nuove prospettive. Molti lo hanno fatto aprendo i salotti di casa propria, altri lo hanno fatto attraverso le società scientifiche di appartenenza, altri ancora lo hanno fatto avvalendosi dell’ampia rete dei luoghi e dei tempi dell’associazionismo cattolico. In ogni ambito si parlavano linguaggi diversi, ma mai c’è stata la babele dei linguaggi, perché ogni volta il desiderio di comunicare rispondeva a quesiti concreti, in cui ognuno poteva riconoscere un pezzo della propria storia o della storia di persone care, spesso malate e in attesa di soluzioni innovative scientificamente efficaci. Sono saltate nella mente delle persone alcune pre-giudiziali che in altri momenti avevano portato a stabilire steccati piuttosto rigidi tra la sfera del privato e la sfera pubblica, tra vita di famiglia e vita professionale, tra rete sociale di tipo amicale e rete sociale di tipo lavorativo.

Il tema della vita evocato dal Referendum ha fatto da collante tra ambienti molto diversi generando in tutti la consapevolezza che il dialogo tra i vari mondi poteva nascere solo dalla fermezza con cui ognuno percepiva la propria unità di vita. Mostrare l’integrità dei propri valori, in casa e nel posto di lavoro, senza se e senza distinguo, ha indotto molte persone ad esporsi con trasparenza e a scoprire meglio l’identità di chi gli stava accanto. Somiglianze e differenze si sono smarcate con più chiarezza e hanno richiesto a tutti lo sforzo di individuare nuovi itinerari di dialogo, tali da garantire nel rispetto delle differenze la responsabilità delle proprie idee e convinzioni. Nel pieno diritto alla diversità di opinioni, ciò che non trovava alloggio era da un lato l’anonimato di chi non voleva definirsi nelle sue posizioni o la goffaggine di chi pur essendo convinto in un senso o nell’altro non aveva argomentazioni per esprimere il proprio punto di vista. I due tipi meno accettati erano quindi l’anonimo indifferente o il fazioso ideologizzato. Ai quattro quesiti referendari sulla vita e sulla famiglia, sulla malattia e sulla scienza, formulati con il linguaggio complesso e non sempre comprensibile della Corte costituzionale, tutti siamo stati chiamati a rispondere, non solo gli scienziati o gli esperti dei vari ambiti disciplinari. A questi ultimi è stato chiesto di riappropriarsi del ruolo dell’intellettuale impegnato non solo sul piano accademico, anche nella più ampia sfera sociale, per rendere più intelligibile e meglio comunicabile il suo sapere.

Per questo, da una parte e dall’altra, gli è stato chiesto di partecipare alla spiegazione e alla interpretazione dei diversi quesiti, affrontando i problemi nella loro concretezza, sapendoli contestualizzare, ma nello stesso tempo senza perdere di vista la dimensione etica più generale in cui si inquadravano. Per farsi capire da tutti e per mettere in risalto la profondità delle questioni in gioco, occorreva evitare di restare chiusi nei propri steccati disciplinari, per aprirsi in un confronto sereno con gli altri saperi, assumendo un punto di vista interdisciplinare o –meglio ancora- transdisciplinare. Uno dei punti nodali che ha caratterizzato il dibattito è stato il tentativo di integrare la prospettiva scientifica propria delle scienze sperimentali, con la prospettiva giuridica e antropologica, sollecitando tutti questi saperi ad affrontare i vari temi, non con un approccio meramente speculativo, ma stando dalla parte delle persone e dei loro problemi, prendendo in considerazione le loro esigenze di natura clinica e biologica, etica e psicologica, sociale e culturale. Un nucleo tematico forte ed aggregante è stato quello della famiglia, all’interno della quale era possibile declinare i diversi problemi, cercando e trovando un confine concettuale e valoriale che li contenesse tutti, reclamando una più forte e decisa tutela verso molteplici forme di aggressione e di destabilizzazione.


Parliamo di embrione: è pur sempre un figlio…
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Il vero protagonista di questa maxioperazione etico-culturale è stato senza dubbio l’embrione. Senza parlare direttamente ha lasciato che parlassero di lui e per lui praticamente tutti i tipi di scienziati e tutti i rappresentanti politici dei diversi schieramenti, le persone più attente e preparate sul piano comunicativo e le persone più semplici: tutti hanno ritenuto di dover fare da altavoce al nuovo soggetto politico, per dichiararne i diritti, veri e presunti, per sottolinearne i limiti, altrettanto veri e presunti. Per mettere in evidenza come sia diventato un vero e proprio spartiacque nel momento di definire una identità di destra o di sinistra, cattolica o laica, progressista o conservatrice. Il dibattito sull’embrione ha anticipato la virulenza del dibattito che governo e parlamento stanno affrontando in questa quindicesima legislatura: omosessualità, eutanasia, pacs, limiti della ricerca scientifica; lo scontro tra i diversi schieramenti e negli schieramenti si gioca in massima parte sul piano dell’etica.

La legge 40 è stata pensata per persone che hanno problemi di sterilità, per coppie che desiderano avere un figlio e che per varie ragioni non possono averlo. E’ facile immaginare che ognuna delle persone che intende avvalersi della legge 40 cerchi la soluzione ad un suo problema specifico, prima di tutto quello del proprio desiderio di genitorialità. Lo fa probabilmente sulla base di un percorso in cui ha dovuto confrontarsi con il dolore e la delusione, dal momento che non è facile accettare la propria sterilità personale o di coppia1. E’ una diagnosi che genera frustrazione e il medico sa che non può limitarsi a constatare il fatto, informando la coppia della propria impossibilità a generare un figlio, deve poter aprire margini di speranza, con convinzione e con determinazione. Le coppie dichiarate infertili cercano soluzioni e vogliono che la scienza e il diritto, l’etica e la psicologia, l’antropologia e la politica, dialogando tra di loro, risolvano o per lo meno provino a risolvere il loro problema…. Il desiderio del figlio in alcune coppie, che sono o sembrano nell’impossibilità di ottenerlo, cozza con una diffusa cultura anti-generativa, che fa dell’Italia il Paese a più basso indice di natalità in Europa e tra i Paesi industrializzati. La Legge 40 rappresenta un indicatore di contrasto molto forte in questo senso. Mostra quanto possa essere forte in realtà il desiderio di genitorialità e come la sofferenza di queste coppie possa sfidare scienza e tecnica perché trovino soluzioni nuove ed efficaci. Nell’attuale contesto socio-culturale un elemento importante della riflessione è rappresentato proprio dalla drastica riduzione delle nascite.

L’Italia si caratterizza per un indice di sviluppo demografico pari all’1,2 e questo valore nella sua sinteticità sembra manifestare un diffuso rifiuto per la genitorialità, per cui le coppie sterili che desiderano avere un figlio meritano una particolare attenzione. Costituiscono una sorta di minoranza profetica che sottolinea il valore della transizione alla genitorialità e richiede un adeguato approfondimento del significato che il figlio assume per la coppia2. In questi casi si ha spesso la sensazione che la coppia entri in crisi se manca il figlio e al figlio si chiede non di essere il frutto della coppia ma l’elemento fondativo della coppia stessa. In altri termini in una prospettiva più tradizionale è la coppia che genera il figlio, in questa nuova prospettiva sembra che sia il figlio a generare la coppia, dal momento che la coppia non sembra trovare un senso alla propria relazione se manca il figlio. Di qui l’esigenza di un figlio a tutti i costi.


Un paradosso tutto italiano:
viviamo più a lungo ma nascono meno bambini
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Nel panorama mondiale l’Italia è attualmente al livello più basso di fecondità, ben al di sotto della soglia che assicura un giusto ricambio generazionale e l’equilibrio tra la fascia giovane e la fascia anziana: 2,1 figli per donna. Varie indagini3 però mettono in guardia dal rischio di interpretare questo dato come il segno che in Italia si attribuisca un minor valore al figlio: il legame coi figli viene indicato come il rapporto più stretto e durevole della vita. In una società in cui i punti di riferimento si fanno sempre più incerti e il legame matrimoniale tende a farsi instabile, il vincolo di filiazione resta ancora l’unico su cui investire in modo certo e continuativo4.

Il bisogno di figlio sta assumendo nel dibattito contemporaneo una forza dirompente, anche per la apparente provocazione con cui le coppie omosessuali rivendicano il diritto al figlio, dando un senso tutto particolare alla richiesta di fecondazione eterologa. Il figlio tanto più diventa il sigillo richiesto dalla coppia, quanto più problematica appare la dinamica di coppia. E’ come se alla precarietà con cui certe coppie si mostrano all’opinione pubblica, supplisse la presenza del figlio che si fa garante della loro struttura di coppia. Le coppie di fatto tanto più vogliono un figlio, quanto più risulta difficile averlo: il figlio si fa garante di un vincolo che di per sé può anche essere rifiutato, ma che la presenza del figlio mostra essere reale e vincolante. La debolezza della coppia oggi sembra in parte compensata dalla solidità del legame col figlio e spesso i coniugi fanno dipendere la qualità e la solidità del loro rapporto dalla presenza o meno di un figlio. Paradossalmente sembra che sia il figlio a generare la coppia e non viceversa. La coppia si modella e si struttura attorno al figlio, di cui è subalterna. La “logica del bambino” ed i suoi diritti prevalgono sempre di più sulla logica della coppia e della famiglia: in questa prospettiva il neo-nato rappresenta più il desiderio di paternità e maternità dei due genitori che una realtà personale, con proprie esigenze e proprie responsabilità5. Prima ancora di nascere il bambino ha già un suo ruolo specifico: fondare la coppia e contribuire al bisogno di realizzazione personale dei genitori che tendono a ri-specchiarsi nel figlio. Rispetto alla procreazione siamo passati da una situazione di attesa e di destino subito, ad una situazione di controllo sul destino stesso.

La diminuzione delle nascite ed il suo carattere di avvenimento scelto e fortemente voluto fa sì che la nascita assuma le caratteristiche di “alto concentrato emozionale”. I genitori finiscono per investire molto, forse troppo, o per lo meno in modo unilaterale, e ciò può costituire un problema per loro e per i figli, che sentono di dover rispondere alle loro aspettative, con un’immagine di sé molto impegnativa. Anche sotto il profilo strettamente biologico un figlio per i suoi genitori non può non nascere sano: la perfezione biologica corre il rischio di diventare una sorta di prerequisito indispensabile per garantirsi il diritto a nascere. La relazione genitori-figlio diventa quindi il parametro di riferimento per una lettura che sotto il profilo affettivo chiede al figlio di cementare l’unità tra i genitori e sotto il profilo effettivo chiede al figlio di garantire la qualità di questa relazione e la sua tenuta nel tempo attraverso la propria perfezione6. Mentre il legame di coppia tende a sfilacciarsi, il passaggio ad una concezione di famiglia in cui il legame tende ad essere prevalentemente quello di filiazione, mostra quanto sia importante l’asse intergenerazionale. In questa chiave è possibile comprendere come la presenza del figlio possa diventare conditio sine qua non per sentirsi legittimati come coppia e quindi come la sterilità di coppia possa diventare condizione di fragilità intrinseca alla stessa relazione di coppia. La famiglia “tradizionale”, costituita dai coniugi e dai rispettivi figli costituisce ancora oggi la forma più diffusa di modello familiare, anche se sta andando incontro a rapidi e profondi mutamenti che riguardano sia le sue relazioni interne che i rapporti con la società7.

Coppie di fatto e legge 40
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Comprendere le motivazioni che sono alla base della identità genitoriale cercata da quelle coppie sterili che accedono alla procreazione medicalmente assistita (PMA) è molto importante. Occorrerebbe analizzare in ciascuno dei coniugi la dimensione di padre o di madre relazionale, intendendo con questa espressione la connotazione della paternità o della maternità non in rapporto al figlio ma in rapporto a se stesso o all’altro coniuge. Madre e padre, in quanto coppia genitoriale, rispondono prima di tutto all’altro genitore del modo in cui disimpegnano i rispettivi ruoli e poi al figlio. Nella PMA, data la complessità delle procedure e il ridotto margine di successo che tuttora presentano, la solidità relazionale della coppia dovrebbe essere garantita a prescindere dalla possibile presenza del figlio. Questo approccio permetterebbe di rafforzare in ognuno il senso di appartenenza alla diade coppia prima che alla diade madre-figlio o padre-figlio, a tutta garanzia del figlio e del suo sviluppo successivo8. In questo modo infatti si avrebbe un disinvestimento sia del possesso del figlio come parte di sé che del senso di rispecchiamento nel figlio delle proprie aspettative, a tutto vantaggio della sua libertà di crescere con un maggiore profilo di autonomia e con una più spiccata identità personale.

La solidità del legame di coppia precederebbe non solo sul piano logico-cronologico, ma anche sul piano etico-affettivo, il rapporto di genitorialità9. Coppie di fatto in cui la stabilità del legame non fosse adeguatamente garantita non dovrebbero essere ammesse alla PMA, analogamente a quanto accade per quelle coppie che, pur essendo regolarmente sposate, non fossero in grado di offrire al figlio nel contesto di affetti stabili, un clima in cui poter crescere in piena autonomia. Il clima familiare diventa l’ambito specifico in cui il soggetto prende coscienza di sé come persona e si apre alla dinamica interpersonale a partire da relazioni privilegiate per durata ed intensità. In tutto ciò il rapporto di coppia costituisce un discriminante semantico di enorme valore, perché se la donna è disposta a correre maggiori rischi accettando la maternità anche in condizioni di minori garanzie, lo fa perché conta sull’investimento affettivo ed effettivo del partner10. Sono dati importanti perché segnano uno spartiacque abbastanza preciso tra la maggiore fatica femminile, a cui però può corrispondere una nuova speranza, e la rassegnata insicurezza con cui l’uomo accetta di far condurre alcune dinamiche decisionali alla donna, nella speranza che questo riduca i suoi livelli di ansia e di frustrazione. Nel caso della PMA l’uomo, accettando un diverso coinvolgimento, assumendolo alle condizioni poste dalla donna, registra uno spaesamento in cui si orienta a fatica, cosa che comporta un diverso e maggior radicamento nel connettivo familiare11. Cambiando il modo in cui l’uomo diventa padre con la PMA, cambia anche il modo in cui deve declinare questa sua paternità. La stessa labilità del vincolo della coppia di fatto comporta una fragilità rinnovata nell’assunzione dell’impegno educativo, per cui la genitorialità già fragile nel momento del concepimento, trascina la stessa fragilità nel momento educativo, caratterizzando lo sviluppo del bambino in termini di più alto rischio di insicurezza.

Il rifiuto a formalizzare un impegno di responsabilità reciproca a livello di vita di coppia, non consente di assumere un carattere normativo chiaro e definito nel processo educativo, per cui alla possibile ricchezza affettiva della relazione genitoriale, farà strutturalmente difetto la dimensione etica della stessa. Ogni misura educativa che comporti indicazioni di tipo precettivo sarà sempre filtrata da una scelta individuale, a cui il figlio dovrà e potrà rispondere in termini di una soggettività indiscussa e temporalmente sganciata da vincoli di fattualità. A due genitori che rifiutano la formalizzazione di un vincolo di responsabilità reciproca e quindi sottopongono ogni relazione di cura reciproca alla scelta rinnovata della quotidianità, il figlio potrà sempre rispondere con un rifiuto ad assumere vincoli breve, medio o lungo termine, rimandandoli al diritto di scegliere giorno per giorno cosa vuole e cosa si impegna a fare. Il modello familiare dell’- hodie et nunc non può rimanere inatteso nella logica educativa, per cui figlio potrà impegnare la sua parola solo con un hodie et nunc, sentendosi svincolato da impegni di mediolungo termine. Questo atteggiamento può renderlo insicuro, nel senso etimologico del termine: sine cura, sia in rapporto a se stesso che in rapporto agli altri, nel senso di minore affidabilità.

In definitiva
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Superare le barriere culturali è una sfida che si impone alla vita sociale prima ancora che alla vita politica. Oggi la società sembra vittima di una vera e propria ansia di regolamentazione giuridica, un’ansia che porta a far ricorso sempre e comunque al diritto, che porta a chiedere in continuazione l’intervento del legislatore e la protezione del diritto. E’ come se la legge fosse l’unica risposta, l’unica fonte di protezione e di organizzazione sociale. Si è dimenticato che esistono le tradizioni culturali di un popolo e di una nazione, le consuetudini consacrate dall’esperienza, che le ha trasformate in buone pratiche del vivere sociale; ci sono i modelli di collaborazione che affondano le loro radici in un insieme di valori laici, ma anche nella fede e nella religione; ci sono modelli sociali per cui persone con bisogni analoghi organizzano modi concreti per soddisfarli; c’è un sano buon senso che affronta le situazioni difficili ridistribuendo le responsabilità operative tra quanti sono in grado di farsene carico; e c’è infine una forte richiesta di riscoprire come vivere uno stile di democrazia partecipativa sempre più attivo e interattivo, generando quella cittadinanza attiva che fa sentire ognuno protagonista delle soluzioni più idonee a soddisfare non solo il bene individuale, ma anche il bene comune. La legge, qualunque essa sia, può molto, ma non può tutto e non può supplire ai bisogni emergenti che si affacciano nella vita quotidiana. Ci sarà sempre un ritardo fisiologico tra l’identificazione del bisogno e la predisposizione delle soluzioni adeguate.

Il superamento delle barriere culturali comincia da ognuno di noi e comincia proprio dalla accoglienza della vita, anche di quella malata, anche di quella diversa dalle nostre aspettative. La prima barriera culturale oggi è il discriminante semantico tra sano e malato, tra chi ha diritto a vivere e chi ha perso, o non ha mai acquistato, questo diritto alla vita. La sentenza della corte costituzionale di pochi giorni fa conferma come ogni vita meriti di essere vissuta e quindi dice con chiarezza no a possibili forme di selezione. Occorre ricordare e riscoprire forme nuove che assicurino alla tutela della vita e della famiglia quella creatività che sia contestualmente innovativa nella tradizione e tradizionale nella innovazione, per garantire la famiglia nella sua specificità, senza trascurare nessuno nella sua individualità. A cominciare dal suo concepimento e fino all’ultimo momento in cui resta tra noi. Anche la discriminazione tra persone di sesso diverso o di orientamento sessuale diverso non deve aver luogo, ma ognuno deve assumere il proprio ruolo e riconoscere le proprie prerogative specifiche. Se persone di uno stesso sesso decidono di vivere insieme facendo uso della loro libertà, hanno diritto ad essere rispettate e a non essere discriminate, ma non possono chiedere la legittimazione di prerogative che si collocano su di un altro piano, come appunto l’accesso alla PMA eterologa o alla adozione, perché questo discriminerebbe altre coppie, eterosessuali, legate da vincoli stabili e impegnate ad assumersi nel contesto sociale altre responsabilità. Non discriminare le coppie omosessuali, ma neppure quelle eterosessuali, misconoscendone diritti e doveri… Non tutto può essere demandato alla legge, molto resta sotto la nostra personale giurisdizione, nella speranza che ognuno di noi sappia fare la sua parte, compresa la legge, perché se è vero che abbiamo bisogno di poche leggi, è auspicabile che queste non solo siano buone, ma addirittura eccellenti.

1 Zurlo MC, La filiazione problematica. Liguori, Napoli, 2002
2 Scabini E, Rossi G, Famiglia generativa e famiglia riproduttiva, il dilemma etico nelle tecnologie di fecondazione assistita, Vita e Pensiero, Milano, 1999
3 Binetti P, Bruni R, Ferrazzoli F, Mauceri S, Nuovi modelli di genitorialità, IIMS, Roma 2004
4 Théry, Couple, filiation et parenté aujourd’hui. Le droit face aux mutations de la famille et de la vie privée, Odile Jacob, Paris, 1998
5 Watson J, Ray MA, The ethics of care and the ethics of cure: Synthesis and Chronicity, National Leagues for Nursing, NY, 1988
6 Todrost T, Vasara F, Nascere nel 2000, Il Mulino, Bologna, 2001
7 Saraceno C, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2001
8 Stern DN, Nascita di una madre, Mondadori, Milano, 1999
9 Coluccia P, La cultura della reciprocità. Arianna, Casalecchio (Bo), 2002
10 Marta E, Lanz M, Cognizioni sociali e relazioni familiari, Franco Angeli, Milano, 2000
11 Mitchell S, Il modello relazionale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002
 
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Parliamo ancora di LEGGE 40

Uno studio descrittivo mediante classificazione ICF, su una popolazione di 100 studenti universitari con disabilità

 
 

A cura di

Paola Binetti
Senatrice, Presidente di Scienza e Vita


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