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Editoriale


Tecnologie per la disabilità: una società senza esclusi Di Lucio Stanca

Formazione oltre le barriere

Dalla disabilità
alla diversa abilità


Parliamo di...

Premio Sapio per la Ricerca Italiana 2003





 
I sogni non sempre svaniscono all’alba. Finiscono nel recesso profondo della memoria, s’annebbiano con il trascorrere degli anni e degli affanni, rinascono quando il tempo – nel suo corso spesso travagliato – sgombra la polvere del passato. E’ in quell’ora che la Terza Età allontana il trauma di un sempre più vicino tramonto e va a cercare la propria ancora di salvezza nei sogni giovanili. La Terza Età diventa per molti il periodo della vita in cui possono meglio esprimere tante delle loro capacità, liberi dal lavoro stressante, liberi dalla cura diretta dei figli. La società sta cercando, allora, di interpretare le potenzialità di questa abbondante generazione di “giovani vecchi” che si propone come una nuova risorsa sociale.

Si avverte quindi l’opportunità di esplorare mondi (culturali, artistici, scientifici, sportivi) che essi avevano sognato in gioventù. Tutto questo per non lasciar cadere nel vuoto valori umani che, sotto il profilo sociale, possono essere validi punti di riferimento per chi guarda al domani non solo nell’ottica della globalizzazione totale. “Questo perché – scrive lo psicologo torinese Giuseppe Campra (cui si deve il progetto dell’Università della Terza Età) – neppure quando ha sorpassato gli ottant’anni l’anziano vuole sentirsi chiamare vecchio”. Uscendo da schemi fin troppo generalizzati, pertanto, l’età anagrafica perde totalmente il suo valore, come assai poco peso ha il titolo di studio conseguito a suo tempo. Nel mondo della Terza Età tutti rifuggono dal proseguire il cammino delle esperienze lavorative, rintracciando invece le tracce dei sogni giovanili per colmare una lacuna ritenuta inadeguata al loro livello culturale. Se è vero, come dice Pirandello che “tutti disperdiamo ogni giorno… o soffochiamo in noi il rigoglio di chissà quanta vita…” tale concetto si propone come punto d’inizio del nuovo cammino di chi intende scrollarsi di dosso l’etichetta della “veneranda senectus”. Abbandonato a se stesso l’anziano diventa pessimista: calpesta tutto ciò che sembra dargli ombra, s’incupisce, rimugina in se stesso problemi che – invece – sarebbero di facile soluzione se una mano tesa gli fosse porta con una carica di amicizia quale Socrate affidò alla storia nei suoi dialoghi. Amicizia più che solidarietà.

L’amico, nell’ambito della Terza Età nel suo programma di abbattimento delle barriere culturali, è il “docente” (o, meglio, “confidente-esperto”) che avvia e sviluppa i temi richiesti dall’anziano e che costituiscono la sfera dei sogni irrealizzabili. Nasce così un “feeling” indistruttibile nell’ambito di un rapporto franco, che si trasforma spesso in rapporto confidenziale. La cattedra non deve essere la barriera tra il “docente” e “l’allievo”, ma soltanto una linea ideale attraverso la quale corre un flusso di conoscenze da un lato poste a disposizione della società, dall’altro raccolte nell’intento di non perdere l’autobus della vita sul quale spontaneamente è salito. Esperienze personali si pongono come pietre fondamentali sulle quali si è costruito il microcosmo della Unitre o meglio come si sono sviluppati, in profondità, taluni comparti nei quali docente e “allievi”, quasi inconsapevolmente, sono diventati parti integranti di una grande famiglia. Quindi nessuna barriera culturale ma un dialogo sempre palpitante, spesso polemico, in un gioco di domande e risposte che serve al docente per conoscere a fondo il suo uditorio e agli allievi per non essere muti testimoni di un cattedratico. Mi torna alla mente un giovane pensionato dell’Enel, affascinato dal mestiere del giornalista. Seguiva i vari “incontri” (il vocabolo “lezioni” non suona bene alle orecchie di chi partecipa ai progetti dell’Unitre) con la curiosità di chi entra per la prima volta in un laboratorio chimico. Solo polveri colorate: spetterà a lui indicarne l’elemento chimico, ma per farlo deve mettere a fuoco, non gli basta la teoria, ma deve ricorrere alla pratica.

Il mio “apprendista- giornalista” lavorava durante gli incontri di penna, esaurendo il taccuino – piuttosto consistente – prima ancora che tutti gli incontri avessero termine. All’ultimo appuntamento si presentò, con infinita umiltà, consegnandomi una tesi a fotografare le sensazioni recepite nel corso dell’anno. In gioventù non era andato oltre la terza media; negli anni della pensione era arrivato laddove il destino l’aveva fermato, elaborando considerazioni con l’habitus professionale del vero giornalista. Le barriere culturali erano cadute da sole, sgretolandosi per la fiducia che il pensionato aveva trovato in chi, con amicizia, lo conduceva laddove non gli era possibile arrivare. L’impegno è notevole, non vi sono dubbi. Spesso la cattedraticità del docente porta ad incomprensioni contro le quali s’arena il tentativo di occupare il tempo libero dell’anziano con una didattica affascinante, ma non sempre atta a stabilire un rapporto umano. L’umiltà, la volontà di compartecipare alle esigenze, anche minime, dell’anziano, la flessibilità nel dare corpo ai suoi progetti, sono le armi che caratterizzano i programmi dell’Unitre, richiamandosi tutti all’arte socratica della maieutica. Si crea in questo modo quell’indispensabile filo conduttore di reciproca stima che consente ad ogni anziano di esprimere al meglio la sua personalità e di accrescere il proprio bagaglio culturale. Lo scopo finale è quello di “cercare di attenuare il limite che fa parte dell’essere umano in quanto pur essendo elemento integrante è pur sempre una condizione necessaria”.

Limite che si annulla con l’approfondimento del dialogo, con l’instaurazione di un rapporto amichevole nel quale anche le preoccupazioni individuali possono giungere alla cattedra del docente ed essere discusse al di fuori della sfera dell’insegnamento. Non si dirà mai a sufficienza che è bravura del “magister” far lievitare la filosofia dell’Unitre, la sua umanità e la sua predisposizione a concedere la propria esperienza a quanti la richiedono. Un rapporto che non si apre con l’inizio di un corso per concludersi alla fine dello stesso, ma deve perpetuarsi nel tempo per far sentire all’anziano che non è solo, che i suoi problemi sono stati recepiti da altri interlocutori e tenuti in somma evidenza. In altre parole, prevale la volontà di stare insieme, di ritrovarsi. Ed allora la simbologia allegorica di come si potrebbe rappresentare l’Università della Terza Età sono le due mani che si intrecciano e che rappresentano i poli stessi dell’istituzione: chi offre e chi riceve uniti strettamente in una simbiosi di grande umanità. Le barriere culturali possono cadere ed elidersi soltanto in questo modo: trasmettendo il sapere e ricevendo il grazie di chi è tornato…a scuola. Scuola di sapere, ma soprattutto di umanità.

 
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di Giovanni Bergese
Ufficio stampa Unitre, Associazione Nazionale Università della Terza età
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