Si avverte quindi l’opportunità
di esplorare mondi (culturali, artistici, scientifici,
sportivi) che essi avevano sognato in gioventù. Tutto
questo per non lasciar cadere nel vuoto valori umani
che, sotto il profilo sociale, possono essere validi
punti di riferimento per chi guarda al domani non solo
nell’ottica della globalizzazione totale. “Questo perché
– scrive lo psicologo torinese Giuseppe Campra (cui
si deve il progetto dell’Università della Terza Età)
– neppure quando ha sorpassato gli ottant’anni l’anziano
vuole sentirsi chiamare vecchio”. Uscendo da schemi
fin troppo generalizzati, pertanto, l’età anagrafica
perde totalmente il suo valore, come assai poco peso
ha il titolo di studio conseguito a suo tempo. Nel mondo
della Terza Età tutti rifuggono dal proseguire il cammino
delle esperienze lavorative, rintracciando invece le
tracce dei sogni giovanili per colmare una lacuna ritenuta
inadeguata al loro livello culturale. Se è vero, come
dice Pirandello che “tutti disperdiamo ogni giorno…
o soffochiamo in noi il rigoglio di chissà quanta vita…”
tale concetto si propone come punto d’inizio del nuovo
cammino di chi intende scrollarsi di dosso l’etichetta
della “veneranda senectus”. Abbandonato a se stesso
l’anziano diventa pessimista: calpesta tutto ciò che
sembra dargli ombra, s’incupisce, rimugina in se stesso
problemi che – invece – sarebbero di facile soluzione
se una mano tesa gli fosse porta con una carica di amicizia
quale Socrate affidò alla storia nei suoi dialoghi.
Amicizia più che solidarietà.
L’amico, nell’ambito della Terza Età nel suo programma
di abbattimento delle barriere culturali, è il “docente”
(o, meglio, “confidente-esperto”) che avvia e sviluppa
i temi richiesti dall’anziano e che costituiscono la
sfera dei sogni irrealizzabili. Nasce così un “feeling”
indistruttibile nell’ambito di un rapporto franco, che
si trasforma spesso in rapporto confidenziale. La cattedra
non deve essere la barriera tra il “docente” e “l’allievo”,
ma soltanto una linea ideale attraverso la quale corre
un flusso di conoscenze da un lato poste a disposizione
della società, dall’altro raccolte nell’intento di non
perdere l’autobus della vita sul quale spontaneamente
è salito. Esperienze personali si pongono come pietre
fondamentali sulle quali si è costruito il microcosmo
della Unitre o meglio come si sono sviluppati, in profondità,
taluni comparti nei quali docente e “allievi”, quasi
inconsapevolmente, sono diventati parti integranti di
una grande famiglia. Quindi nessuna barriera culturale
ma un dialogo sempre palpitante, spesso polemico, in
un gioco di domande e risposte che serve al docente
per conoscere a fondo il suo uditorio e agli allievi
per non essere muti testimoni di un cattedratico. Mi
torna alla mente un giovane pensionato dell’Enel, affascinato
dal mestiere del giornalista. Seguiva i vari “incontri”
(il vocabolo “lezioni” non suona bene alle orecchie
di chi partecipa ai progetti dell’Unitre) con la curiosità
di chi entra per la prima volta in un laboratorio chimico.
Solo polveri colorate: spetterà a lui indicarne l’elemento
chimico, ma per farlo deve mettere a fuoco, non gli
basta la teoria, ma deve ricorrere alla pratica.
Il mio “apprendista- giornalista” lavorava durante gli
incontri di penna, esaurendo il taccuino – piuttosto
consistente – prima ancora che tutti gli incontri avessero
termine. All’ultimo appuntamento si presentò, con infinita
umiltà, consegnandomi una tesi a fotografare le sensazioni
recepite nel corso dell’anno. In gioventù non era andato
oltre la terza media; negli anni della pensione era
arrivato laddove il destino l’aveva fermato, elaborando
considerazioni con l’habitus professionale del vero
giornalista. Le barriere culturali erano cadute da sole,
sgretolandosi per la fiducia che il pensionato aveva
trovato in chi, con amicizia, lo conduceva laddove non
gli era possibile arrivare. L’impegno è notevole, non
vi sono dubbi. Spesso la cattedraticità del docente
porta ad incomprensioni contro le quali s’arena il tentativo
di occupare il tempo libero dell’anziano con una didattica
affascinante, ma non sempre atta a stabilire un rapporto
umano. L’umiltà, la volontà di compartecipare alle esigenze,
anche minime, dell’anziano, la flessibilità nel dare
corpo ai suoi progetti, sono le armi che caratterizzano
i programmi dell’Unitre, richiamandosi tutti all’arte
socratica della maieutica. Si crea in questo modo quell’indispensabile
filo conduttore di reciproca stima che consente ad ogni
anziano di esprimere al meglio la sua personalità e
di accrescere il proprio bagaglio culturale. Lo scopo
finale è quello di “cercare di attenuare il limite che
fa parte dell’essere umano in quanto pur essendo elemento
integrante è pur sempre una condizione necessaria”.
Limite che si annulla con l’approfondimento del dialogo,
con l’instaurazione di un rapporto amichevole nel quale
anche le preoccupazioni individuali possono giungere
alla cattedra del docente ed essere discusse al di fuori
della sfera dell’insegnamento. Non si dirà mai a sufficienza
che è bravura del “magister” far lievitare la filosofia
dell’Unitre, la sua umanità e la sua predisposizione
a concedere la propria esperienza a quanti la richiedono.
Un rapporto che non si apre con l’inizio di un corso
per concludersi alla fine dello stesso, ma deve perpetuarsi
nel tempo per far sentire all’anziano che non è solo,
che i suoi problemi sono stati recepiti da altri interlocutori
e tenuti in somma evidenza. In altre parole, prevale
la volontà di stare insieme, di ritrovarsi. Ed allora
la simbologia allegorica di come si potrebbe rappresentare
l’Università della Terza Età sono le due mani che si
intrecciano e che rappresentano i poli stessi dell’istituzione:
chi offre e chi riceve uniti strettamente in una simbiosi
di grande umanità. Le barriere culturali possono cadere
ed elidersi soltanto in questo modo: trasmettendo il
sapere e ricevendo il grazie di chi è tornato…a scuola.
Scuola di sapere, ma soprattutto di umanità. |