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Editoriale


Tecnologie per la disabilità: una società senza esclusi Di Lucio Stanca

Formazione oltre le barriere

Dalla disabilità
alla diversa abilità


Parliamo di...

Premio Sapio per la Ricerca Italiana 2003





 
La scala dei valori di chi è sano esula dall’impedimento: liberi, si deve essere liberi da qualsivoglia costrizione, sia essa una carrozzina, un alfabeto Braille, una lingua dei segni o uno psicofarmaco che ci uniforma al comportamento sociale. Eppure li vediamo ridere e ci domandiamo cosa ci trovino di tanto divertente nella loro situazione… Li incontriamo, poi, ad una mostra di impressionisti, con i loro abili polpastrelli, intenti a “leggere” un quadro e ci stupiamo di come basti davvero poco per godere la vita. Io credo che valga la pena di vivere anche per soli tre minuti di felicità al giorno.

Il concetto di felicità è opinabile, d’accordo, ma ai miei bambini basta una giornata di sole ed un sorriso autentico di solidarietà durante il cambio del pannolino. L’umiltà di affidarsi a chi non sei tu per i servizi di mero maternage, presuppone un rapporto di fiducia, abbandono che nessun titolo di studio può assicurare. Voler bene ai nostri ragazzi è la ricetta più semplice ed atemporale per essere insegnanti efficaci. Non c’è programma che ci tuteli, ministro che ci salvaguardi, laurea che ce lo conferisca, team che ci rassicuri. O abbiamo il cuore o no. Gli ultimi della classe sono quelli che, in effetti, ci impartiscono gratuitamente lezioni di saggezza. Saper essere prima di saper fare.

Né la matematica nè le lettere ci hanno mai indicato la via del saper vivere e l’uomo colto non è sempre retto, ci erudiva il Maritain; così, nelle nostre aule italiane, che hanno il merito di accogliere gli alunni in situazione di handicap, s’impara a discernere il fatuo dal necessario da un libro vivo. Il coraggio, la determinazione, la voglia di fargliela nonostante tutto, dapprima ci disorienta, poi ci convince costringendoci a ridimensionare le nostre croci o pseudocroci.

Se la strada è di montagna, va salita con ruote e marce adeguate, così se davvero si crede all’integrazione, intesa come fattiva appartenenza al gruppo, col proprio contributo emozionale e cognitivo, occorre l’impegno di tutte le istituzioni (famiglia, scuola, servizi sociali e sanitari) che sorreggano e tendano la mano al disabile. “La mano nel cappello- storie di ex ultimi della classe” racconta di chi non fa clamore, non emerge, è monotono per narrarne le gesta. Hand in Cap significa, infatti, la mano nel cappello. Un copricapo che, apparentemente vuoto, si rivela pieno di risorse se si ha la pazienza di cercare con sensibilità, forza e determinazione.


Queste alcune delle storie contenute nel libro…

Alessandro ::..

Alessandro All’apparenza, Alessandro era un bambino meraviglioso, dagli occhi del cielo, seduto, per nefasti esiti da parto, su una carrozzella pateticamente color verde speranza, ma, nel cuore racchiudeva la tristezza atavica dell’uomo. Perché non poteva correre? Le prime lezioni furono drammatiche, anche perché gli proponevo le letterine che solo un occhio emmetrope può cogliere. La diagnosi, infatti, non informava del deficit visivo, così lo capimmo a nostre spese.

Occorrevano accorgimenti mirati: evidenziare, con un colore che lui vedesse bene, lo spazio entro cui scrivere. Per due anni, gli proposi di esercitare quelle manine rattrappite perché credo fermamente che il computer non possa sostituire le appendici che il buon Dio ci ha donato: mica ci può far la barba, stringere la mano o accarezzare!

Certo, gli devo attribuire i suoi meriti: il carattere ingrandito ha certamente favorito l’alfabetizzazione di Alessandro, riducendone i tempi e il dispendio di energie… A proposito di energia, che fatica fargli usare il deambulatore! Lo incitavo dicendogli che anche a me sarebbe piaciuto star sempre seduta da pigrona, ma che gli uomini si spostano a due gambe e che, tutto sommato, non è poi così brutta la posizione eretta. Il personale dell’A.S.L., vedendo la mia attenzione rivolta all’aspetto della riabilitazione fisica, arrivò a rimproverarmi con l’affermazione che segue: - Lei pensi a fare l’insegnante! – E chi non ci pensa? Dal momento in cui non credo, però, alla mera ripartizione dei ruoli, ad una ferrea delega di compiti, onestamente non smisi di pretendere da Alessandro un esercizio costante e sulla statica e sul deambulatore.

Specifico che il mio intervento si limita ad otto ore settimanali sulle quaranta di frequenza. Lungi da me ogni merito, posso ora constatare che il bambino si sposta dalla carrozzella alla sedia del proprio banco con discreta disinvoltura e gattona per unirsi ai compagni quando gioca a palla. Mi tornano alla mente le parole della madre che, in merito alla deambulazione del figlio, si espresse così: "A me non importa se camminerai o no, ti voglio bene come sei!" Questo è senz’altro il miglior trampolino di lancio per affrontare la vita: essere accettati dalla propria famiglia per quello che si è, a prescindere dai requisiti e dalle aspettative genitoriali.Tale abbraccio non è, però, scevro da legittime pretese che richiedono impegno e volontà nel far fruttare i talenti personali. Non vi è, quindi pietismo, ma pretese adeguate alle potenzialità. Una nota positiva dell’intervento sull’alunno, è quella della pluralità: le insegnanti curricolari si associano al sostegno, all’educatrice, che è psicopedagogista, ed all’obiettore di coscienza. Ognuno, con le proprie caratteristiche, elargisce se stesso, unico ed irripetibile. C’è naturalmente chi riesce ad entrare più in sintonia con il bambino e chi fatica, ma, per maturità e professionalità, non ci si deve mai ritirare dalla trincea (…).

Matteo ::..

Matteo incarna la sofferenza. La tetraparesi spastica, di grave entità, lo ha inchiodato sulla sedia a rotelle, togliendogli anche la capacità di esprimere verbalmente il proprio pensiero. Il sorriso, il pianto e la comunicazione analogica, così vivi ed espressivi, rimangono l’unica modalità per farsi capire da chi lo attornia. In genere, quando ci si rivolge a questi bambini, non si tiene presente la loro età cronologica e si adotta un’espressione di vero e proprio maternage. No! Dentro a quel corpo deforme, si cela un’intelligenza che non sempre riusciamo a riconoscere (…). Stando con lui e con gli alunni portatori del suo stesso deficit, in una desueta sezione speciale, ho capito quanto la serenità dell’insegnante e la sua voglia di educare incidano sugli obiettivi che si desiderano conseguire.

La voce pacata e tranquilla rappresenta un ottimo strumento didattico: nessuno, come queste creature, avverte l’energia che emana da chi li affianca. Opportuna inoltre una strategia: avvisarli prima di intraprendere le attività, per prepararli ed evitare che si spaventino. Come agiremmo noi se ci trovassimo improvvisamente, nella vasca delle palline multicolori per la psicomotricità? (…). Matteo ha cominciato a stendere le proprie manine ed il braccio ipertonico con la digitopittura. Mi sono sentita felice quando ho avvertito la mano morbida, che non opponeva resistenza alla mia ed accettava di toccare il colore. Mentre gli cambiavo il pannolone, notai, un giorno, che portava la propria mano alla bocca e me ne rallegrai perché interpretai il gesto come conoscenza ed accettazione del proprio corpo. Spesso siamo asettici, non ci tocchiamo più, un po’ per timore di contrarre patologie e un pò perché, individualisti come siamo diventati, abbiamo poco tempo per accarezzare il prossimo. Dopo lo sconforto iniziale e comprensibile della madre, che si espresse con questa toccante e disperata frase: "Sarebbe stato meglio che, in sala parto, fossimo morti tutti e due...", ora nella famiglia di Matteo è tornato il sereno, reso ancora più luminoso dalla nascita di una nipotina, figlia di uno dei fratelli.

Il bambino dorme più tranquillamente le sue notti, sale sul pulmino con i compagni e rimane in una scuola a tempo pieno per otto ore al giorno. Un’educatrice lo accudisce al momento del pasto, che consuma individualmente per rendere più proficue le indicazioni di una logopedista, contattata privatamente dalla famiglia, che ha corretto il nostro modo di alimentarlo, suggerendo di dirigere il cucchiaio in una posizione determinata atta a sviluppare i muscoli linguo-boccali. Il mio lavoro necessita di una massiccia dose di umiltà che mi permetta di apprendere da tutti. Occorre ascoltare consigli e, con il buon senso appropriarsi di quelli che si ritengono maggiormente pertinenti. Ho rivisto Matteo ad un centro estivo ed era proprio rilassato al fianco di belle signorine: pareva conversare, o meglio partecipare alla loro conversazione, ed ho pensato che un traguardo importante era stato raggiunto: quello dell’autonomia, che prescinde da una determinata persona o realtà ed è, invece, subordinata al nostro benessere, frutto di progressi ed attuali esperienze positive. È come una rondine che sa volare al mare e in montagna con l’ausilio delle sue sole ali. Bravo Matteo, è bello vedere i tuoi occhi sereni e la tua bocca che si schiude per rivolgerci un sorrisone. Sono lontani i tempi delle urla, dei pianti e della ricerca affannosa della tua mamma. Ora, puoi camminare con le tue gambe, che non rispondono allo stimolo nervoso, ma a quello del cuore e condividere le tue giornate con insegnanti diversi e desiderosi di allacciare con te un rapporto costruttivo e rilassante!

Pia ::..

Ci "vedemmo" nel ‘91. Le virgolette sono giustificate dal fatto che non sono certa che lei mi vide. Era, infatti, in braccio alla madre, o meglio, a cavalcioni e mi girava le spalle. Sfidai me stessa e la diagnosi medica che, senza pietà, sentenziava la seguente patologia: "psicosi deficitaria con tratti autistici" con un piano didattico che, dicendola con Melania Klein, aveva questo presupposto: "L’alunno introietta l’insegnante e viceversa". Dovevamo entrare in sintonia, nonostante la "fortezza vuota" (Bettelheim), ossia l’incapacità di interagire (…). Non aveva un posto fisso, il suo pellegrinare era continuo ed estenuante per lei e per chi la seguiva. Cominciò il braccio di ferro. Da una parte, lei che reclamava la sua libertà e, dall’altra, io che rappresentavo i divieti e il momento eteronomico. Ero decisamente impopolare ai suoi occhi: al mattino, appena mi vedeva, dava in escandescenza.

L’amavo e la temevo: era tenace, ostinata e determinata. Le scene del film "Anna dei miracoli" accompagnavano le mie azioni di forza e, per far tacere il rimorso che provavo quando le imponevo di non uscire dall’aula, che per forza maggiore non era quella di appartenenza, ma una approntata per i bambini in difficoltà, mi ripetevo che le mie imposizioni miravano al suo bene e all’interiorizzazione di almeno una norma. Scalciava e si rifugiava in atteggiamenti autoerotici, quali la fissazione e la coazione a ripetere. Osservandola, mi resi presto conto che ripeteva sempre lo stesso gesto: muoveva le dita in modo stereotipato e tutto il mondo era fuori. Si anestetizzava. Io odiavo quell’anestetico che me la portava via, che ci faceva essere sole sebbene insieme. Fu così che la imitai: anch’io volevo partecipare al suo rituale e cominciai a muovere le mie mani come lei muoveva le proprie. Meraviglia... mi guardò e bloccò il mio movimento. Con amore, la guardai e, per la prima volta, i suoi occhi azzurri e belli che più belli non si può, mi sembrarono vivi. Le assicurai, però, che avrei smesso quando anche lei avrebbe smesso. Presi coraggio.Tornai a casa e salendo le scale (chissà perché il salire le scale mi fa venire tante idee) promisi a me stessa che la mia azione doveva essere ferrea e che, per niente al mondo, avrei dovuto desistere dal mio intento educativo. Al bando l’assistenza! Seguirono giorni duri, segnati da momenti altalenanti, un pò belli e un pò brutti. Grandi finestre ci permettevano di osservare il divenire delle stagioni e degli alberi.

Le foglie caduche, che ballavano al vento, attirarono la sua attenzione. Uscimmo in cortile per raccoglierle, gliene misi una in mano e le feci sentire lo scricchiolio che produceva. Ci camminammo sopra e lei sgranava gli occhioni, stupita di udire quel suono così peculiare. Intanto, le ripetevo la parola "albero", scandendola in sillabe. Rientrate, in compagnia delle nostre foglie, le utilizzammo in diversi modi: frottage, appendendole ad un albero che avevo disegnato... Inaspettatamente, ma era proprio lei?, proferì un timido e gutturale "a-be-ro". Lo disegnammo ovunque, per poi ritagliarlo e tenerlo tra le dita. È opportuno, a questo punto, sottolineare che ero riuscita a tenere in braccio la bambina, seppur tremando e con l’orologio in mano. Ricordo perfettamente che, nel corso del primo anno scolastico, fu possibile il contatto fisico per ben quaranta minuti! Mi resi poi conto dell’importanza del ritaglio: sedava la sua aggressività, era un’azione catartica. Le sue esigenze si tradussero in parole. La seconda che emise fu: "ta-ia" per richiedere le forbici.

Reduce dal corso di specializzazione per audiolesi, cercavo di conferire autorevolezza ai diversi fonemi, così glieli impostavo nei vari punti articolatori ed era buffo vedere il suo ditino che comprimeva una narice per interiorizzare il suono "n". La musica ci accompagnò sempre: dal vivo o diffusa da una fonte sonora segnò i momenti delle nostre giornate e dei diversi stati d’animo. Mozart ed una nota canzone vincitrice di un recente Festival di Sanremo diventarono compagni di viaggio. Guai a cambiare repertorio, pena la rottura dell’incantesimo! Spesso ci si recava in palestra, dove Pia prediligeva una determinata locazione e qui, con un chiaro "ca-ta" mi imponeva i suoi gusti musicali. Ribadisco che dovevo cantare solo le canzoni da lei preferite, altrimenti la reazione era nervosa e violenta. Non eravamo più isolate e trascorrevamo granparte del tempo nell’aula di appartenenza, dove i compagni e le insegnanti si facevano in quattro perché si sentisse a proprio agio. Rammento ancora i vetri con le sue produzioni e la dolcezza del Natale che lasciava a bocca aperta la piccola con l’albero addobbato. Nei primi anni di scolarità, il controllo sfinterico e l’alimentazione costituivano se non utopie, obiettivi lontani miglia e miglia. Insieme, e sottolineo tale parola nella sua valenza etimologica, perché senza un serio lavoro d’equipe si penalizza l’alunno a noi affidato, riuscimmo a far sì che il dizionario della piccola contemplasse vocaboli indispensabili alla sua autonomia, quali pipì e cacca.

Il rilassamento doveva essere totale perché evacuasse: mi sedevo sul bidet e, tenendole le mani, le cantavo ciò che desiderava fino al raggiungimento della tanto sospirata cacca. Credo di aver cominciato a comprendere la maternità con Pia.Trascorsi con lei la mia gravidanza e dolce è il ricordo di lei che accarezzava quella pancia che cresceva. L’ho rivista a Pasqua di questo anno Santo intraprendente ed attiva come sempre, integrata in una scuola media e in un gruppo pomeridiano di portatori di handicap. La mamma, il babbo e la nonna la sostengono in questo viaggio in cui gioia è riuscire a gestire la bambina, a vivere tranquillamente una serata in pizzeria e accorgersi che intorno a loro vi sono tante mani pronte a sorreggerli nelle eventuali cadute.


 
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di Antonella Vandelli
Insegnante di sostegno
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