Il concetto di felicità
è opinabile, d’accordo, ma ai miei bambini basta una
giornata di sole ed un sorriso autentico di solidarietà
durante il cambio del pannolino. L’umiltà di affidarsi
a chi non sei tu per i servizi di mero maternage, presuppone
un rapporto di fiducia, abbandono che nessun titolo
di studio può assicurare. Voler bene ai nostri ragazzi
è la ricetta più semplice ed atemporale per essere insegnanti
efficaci. Non c’è programma che ci tuteli, ministro
che ci salvaguardi, laurea che ce lo conferisca, team
che ci rassicuri. O abbiamo il cuore o no. Gli ultimi
della classe sono quelli che, in effetti, ci impartiscono
gratuitamente lezioni di saggezza. Saper essere prima
di saper fare.
Né la matematica nè le lettere ci hanno mai indicato
la via del saper vivere e l’uomo colto non è sempre
retto, ci erudiva il Maritain; così, nelle nostre aule
italiane, che hanno il merito di accogliere gli alunni
in situazione di handicap, s’impara a discernere il
fatuo dal necessario da un libro vivo. Il coraggio,
la determinazione, la voglia di fargliela nonostante
tutto, dapprima ci disorienta, poi ci convince costringendoci
a ridimensionare le nostre croci o pseudocroci.
Se la strada è di montagna, va salita con ruote e marce
adeguate, così se davvero si crede all’integrazione,
intesa come fattiva appartenenza al gruppo, col proprio
contributo emozionale e cognitivo, occorre l’impegno
di tutte le istituzioni (famiglia, scuola, servizi sociali
e sanitari) che sorreggano e tendano la mano al disabile.
“La mano nel cappello- storie di ex ultimi della classe”
racconta di chi non fa clamore, non emerge, è monotono
per narrarne le gesta. Hand in Cap significa, infatti,
la mano nel cappello. Un copricapo che, apparentemente
vuoto, si rivela pieno di risorse se si ha la pazienza
di cercare con sensibilità, forza e determinazione.
Queste alcune delle storie contenute nel libro…
Alessandro ::..
Alessandro
All’apparenza, Alessandro era un bambino meraviglioso,
dagli occhi del cielo, seduto, per nefasti esiti da
parto, su una carrozzella pateticamente color verde
speranza, ma, nel cuore racchiudeva la tristezza atavica
dell’uomo. Perché non poteva correre? Le prime lezioni
furono drammatiche, anche perché gli proponevo le letterine
che solo un occhio emmetrope può cogliere. La diagnosi,
infatti, non informava del deficit visivo, così lo capimmo
a nostre spese.
Occorrevano accorgimenti mirati: evidenziare, con un
colore che lui vedesse bene, lo spazio entro cui scrivere.
Per due anni, gli proposi di esercitare quelle manine
rattrappite perché credo fermamente che il computer
non possa sostituire le appendici che il buon Dio ci
ha donato: mica ci può far la barba, stringere la mano
o accarezzare!
Certo, gli devo attribuire i suoi meriti: il carattere
ingrandito ha certamente favorito l’alfabetizzazione
di Alessandro, riducendone i tempi e il dispendio di
energie… A proposito di energia, che fatica fargli usare
il deambulatore! Lo incitavo dicendogli che anche a
me sarebbe piaciuto star sempre seduta da pigrona, ma
che gli uomini si spostano a due gambe e che, tutto
sommato, non è poi così brutta la posizione eretta.
Il personale dell’A.S.L., vedendo la mia attenzione
rivolta all’aspetto della riabilitazione fisica, arrivò
a rimproverarmi con l’affermazione che segue: - Lei
pensi a fare l’insegnante! – E chi non ci pensa? Dal
momento in cui non credo, però, alla mera ripartizione
dei ruoli, ad una ferrea delega di compiti, onestamente
non smisi di pretendere da Alessandro un esercizio costante
e sulla statica e sul deambulatore.
Specifico che il mio intervento si limita ad otto ore
settimanali sulle quaranta di frequenza. Lungi da me
ogni merito, posso ora constatare che il bambino si
sposta dalla carrozzella alla sedia del proprio banco
con discreta disinvoltura e gattona per unirsi ai compagni
quando gioca a palla. Mi tornano alla mente le parole
della madre che, in merito alla deambulazione del figlio,
si espresse così: "A me non importa se camminerai o
no, ti voglio bene come sei!" Questo è senz’altro il
miglior trampolino di lancio per affrontare la vita:
essere accettati dalla propria famiglia per quello che
si è, a prescindere dai requisiti e dalle aspettative
genitoriali.Tale abbraccio non è, però, scevro da legittime
pretese che richiedono impegno e volontà nel far fruttare
i talenti personali. Non vi è, quindi pietismo, ma pretese
adeguate alle potenzialità. Una nota positiva dell’intervento
sull’alunno, è quella della pluralità: le insegnanti
curricolari si associano al sostegno, all’educatrice,
che è psicopedagogista, ed all’obiettore di coscienza.
Ognuno, con le proprie caratteristiche, elargisce se
stesso, unico ed irripetibile. C’è naturalmente chi
riesce ad entrare più in sintonia con il bambino e chi
fatica, ma, per maturità e professionalità, non ci si
deve mai ritirare dalla trincea (…).
Matteo ::..
Matteo
incarna la sofferenza. La tetraparesi spastica, di grave
entità, lo ha inchiodato sulla sedia a rotelle, togliendogli
anche la capacità di esprimere verbalmente il proprio
pensiero. Il sorriso, il pianto e la comunicazione analogica,
così vivi ed espressivi, rimangono l’unica modalità
per farsi capire da chi lo attornia. In genere, quando
ci si rivolge a questi bambini, non si tiene presente
la loro età cronologica e si adotta un’espressione di
vero e proprio maternage. No! Dentro a quel corpo deforme,
si cela un’intelligenza che non sempre riusciamo a riconoscere
(…). Stando con lui e con gli alunni portatori del suo
stesso deficit, in una desueta sezione speciale, ho
capito quanto la serenità dell’insegnante e la sua voglia
di educare incidano sugli obiettivi che si desiderano
conseguire.
La voce pacata e tranquilla rappresenta un ottimo strumento
didattico: nessuno, come queste creature, avverte l’energia
che emana da chi li affianca. Opportuna inoltre una
strategia: avvisarli prima di intraprendere le attività,
per prepararli ed evitare che si spaventino. Come agiremmo
noi se ci trovassimo improvvisamente, nella vasca delle
palline multicolori per la psicomotricità? (…). Matteo
ha cominciato a stendere le proprie manine ed il braccio
ipertonico con la digitopittura. Mi sono sentita felice
quando ho avvertito la mano morbida, che non opponeva
resistenza alla mia ed accettava di toccare il colore.
Mentre gli cambiavo il pannolone, notai, un giorno,
che portava la propria mano alla bocca e me ne rallegrai
perché interpretai il gesto come conoscenza ed accettazione
del proprio corpo. Spesso siamo asettici, non ci tocchiamo
più, un po’ per timore di contrarre patologie e un pò
perché, individualisti come siamo diventati, abbiamo
poco tempo per accarezzare il prossimo. Dopo lo sconforto
iniziale e comprensibile della madre, che si espresse
con questa toccante e disperata frase: "Sarebbe stato
meglio che, in sala parto, fossimo morti tutti e due...",
ora nella famiglia di Matteo è tornato il sereno, reso
ancora più luminoso dalla nascita di una nipotina, figlia
di uno dei fratelli.
Il bambino dorme più tranquillamente le sue notti, sale
sul pulmino con i compagni e rimane in una scuola a
tempo pieno per otto ore al giorno. Un’educatrice lo
accudisce al momento del pasto, che consuma individualmente
per rendere più proficue le indicazioni di una logopedista,
contattata privatamente dalla famiglia, che ha corretto
il nostro modo di alimentarlo, suggerendo di dirigere
il cucchiaio in una posizione determinata atta a sviluppare
i muscoli linguo-boccali. Il mio lavoro necessita di
una massiccia dose di umiltà che mi permetta di apprendere
da tutti. Occorre ascoltare consigli e, con il buon
senso appropriarsi di quelli che si ritengono maggiormente
pertinenti. Ho rivisto Matteo ad un centro estivo ed
era proprio rilassato al fianco di belle signorine:
pareva conversare, o meglio partecipare alla loro conversazione,
ed ho pensato che un traguardo importante era stato
raggiunto: quello dell’autonomia, che prescinde da una
determinata persona o realtà ed è, invece, subordinata
al nostro benessere, frutto di progressi ed attuali
esperienze positive. È come una rondine che sa volare
al mare e in montagna con l’ausilio delle sue sole ali.
Bravo Matteo, è bello vedere i tuoi occhi sereni e la
tua bocca che si schiude per rivolgerci un sorrisone.
Sono lontani i tempi delle urla, dei pianti e della
ricerca affannosa della tua mamma. Ora, puoi camminare
con le tue gambe, che non rispondono allo stimolo nervoso,
ma a quello del cuore e condividere le tue giornate
con insegnanti diversi e desiderosi di allacciare con
te un rapporto costruttivo e rilassante!
Pia ::..
Ci
"vedemmo" nel ‘91. Le virgolette sono giustificate dal
fatto che non sono certa che lei mi vide. Era, infatti,
in braccio alla madre, o meglio, a cavalcioni e mi girava
le spalle. Sfidai me stessa e la diagnosi medica che,
senza pietà, sentenziava la seguente patologia: "psicosi
deficitaria con tratti autistici" con un piano didattico
che, dicendola con Melania Klein, aveva questo presupposto:
"L’alunno introietta l’insegnante e viceversa". Dovevamo
entrare in sintonia, nonostante la "fortezza vuota"
(Bettelheim), ossia l’incapacità di interagire (…).
Non aveva un posto fisso, il suo pellegrinare era continuo
ed estenuante per lei e per chi la seguiva. Cominciò
il braccio di ferro. Da una parte, lei che reclamava
la sua libertà e, dall’altra, io che rappresentavo i
divieti e il momento eteronomico. Ero decisamente impopolare
ai suoi occhi: al mattino, appena mi vedeva, dava in
escandescenza.
L’amavo e la temevo: era tenace, ostinata e determinata.
Le scene del film "Anna dei miracoli" accompagnavano
le mie azioni di forza e, per far tacere il rimorso
che provavo quando le imponevo di non uscire dall’aula,
che per forza maggiore non era quella di appartenenza,
ma una approntata per i bambini in difficoltà, mi ripetevo
che le mie imposizioni miravano al suo bene e all’interiorizzazione
di almeno una norma. Scalciava e si rifugiava in atteggiamenti
autoerotici, quali la fissazione e la coazione a ripetere.
Osservandola, mi resi presto conto che ripeteva sempre
lo stesso gesto: muoveva le dita in modo stereotipato
e tutto il mondo era fuori. Si anestetizzava. Io odiavo
quell’anestetico che me la portava via, che ci faceva
essere sole sebbene insieme. Fu così che la imitai:
anch’io volevo partecipare al suo rituale e cominciai
a muovere le mie mani come lei muoveva le proprie. Meraviglia...
mi guardò e bloccò il mio movimento. Con amore, la guardai
e, per la prima volta, i suoi occhi azzurri e belli
che più belli non si può, mi sembrarono vivi. Le assicurai,
però, che avrei smesso quando anche lei avrebbe smesso.
Presi coraggio.Tornai a casa e salendo le scale (chissà
perché il salire le scale mi fa venire tante idee) promisi
a me stessa che la mia azione doveva essere ferrea e
che, per niente al mondo, avrei dovuto desistere dal
mio intento educativo. Al bando l’assistenza! Seguirono
giorni duri, segnati da momenti altalenanti, un pò belli
e un pò brutti. Grandi finestre ci permettevano di osservare
il divenire delle stagioni e degli alberi.
Le foglie caduche, che ballavano al vento, attirarono
la sua attenzione. Uscimmo in cortile per raccoglierle,
gliene misi una in mano e le feci sentire lo scricchiolio
che produceva. Ci camminammo sopra e lei sgranava gli
occhioni, stupita di udire quel suono così peculiare.
Intanto, le ripetevo la parola "albero", scandendola
in sillabe. Rientrate, in compagnia delle nostre foglie,
le utilizzammo in diversi modi: frottage, appendendole
ad un albero che avevo disegnato... Inaspettatamente,
ma era proprio lei?, proferì un timido e gutturale "a-be-ro".
Lo disegnammo ovunque, per poi ritagliarlo e tenerlo
tra le dita. È opportuno, a questo punto, sottolineare
che ero riuscita a tenere in braccio la bambina, seppur
tremando e con l’orologio in mano. Ricordo perfettamente
che, nel corso del primo anno scolastico, fu possibile
il contatto fisico per ben quaranta minuti! Mi resi
poi conto dell’importanza del ritaglio: sedava la sua
aggressività, era un’azione catartica. Le sue esigenze
si tradussero in parole. La seconda che emise fu: "ta-ia"
per richiedere le forbici.
Reduce dal corso di specializzazione per audiolesi,
cercavo di conferire autorevolezza ai diversi fonemi,
così glieli impostavo nei vari punti articolatori ed
era buffo vedere il suo ditino che comprimeva una narice
per interiorizzare il suono "n". La musica ci accompagnò
sempre: dal vivo o diffusa da una fonte sonora segnò
i momenti delle nostre giornate e dei diversi stati
d’animo. Mozart ed una nota canzone vincitrice di un
recente Festival di Sanremo diventarono compagni di
viaggio. Guai a cambiare repertorio, pena la rottura
dell’incantesimo! Spesso ci si recava in palestra, dove
Pia prediligeva una determinata locazione e qui, con
un chiaro "ca-ta" mi imponeva i suoi gusti musicali.
Ribadisco che dovevo cantare solo le canzoni da lei
preferite, altrimenti la reazione era nervosa e violenta.
Non eravamo più isolate e trascorrevamo granparte del
tempo nell’aula di appartenenza, dove i compagni e le
insegnanti si facevano in quattro perché si sentisse
a proprio agio. Rammento ancora i vetri con le sue produzioni
e la dolcezza del Natale che lasciava a bocca aperta
la piccola con l’albero addobbato. Nei primi anni di
scolarità, il controllo sfinterico e l’alimentazione
costituivano se non utopie, obiettivi lontani miglia
e miglia. Insieme, e sottolineo tale parola nella sua
valenza etimologica, perché senza un serio lavoro d’equipe
si penalizza l’alunno a noi affidato, riuscimmo a far
sì che il dizionario della piccola contemplasse vocaboli
indispensabili alla sua autonomia, quali pipì e cacca.
Il rilassamento doveva essere totale perché evacuasse:
mi sedevo sul bidet e, tenendole le mani, le cantavo
ciò che desiderava fino al raggiungimento della tanto
sospirata cacca. Credo di aver cominciato a comprendere
la maternità con Pia.Trascorsi con lei la mia gravidanza
e dolce è il ricordo di lei che accarezzava quella pancia
che cresceva. L’ho rivista a Pasqua di questo anno Santo
intraprendente ed attiva come sempre, integrata in una
scuola media e in un gruppo pomeridiano di portatori
di handicap. La mamma, il babbo e la nonna la sostengono
in questo viaggio in cui gioia è riuscire a gestire
la bambina, a vivere tranquillamente una serata in pizzeria
e accorgersi che intorno a loro vi sono tante mani pronte
a sorreggerli nelle eventuali cadute.
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