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Copertina della rivista

Il palazzo del VEGA

 

La comunicazione pubblica della scienza

E’ interesse non solo dei ricercatori di professione, ma dell’intera società che la qualità della comunicazione scientifica, in ogni ambito e dimensione, raggiunga il livello più alto possibile. E tutti siamo, dunque, chiamati – ciascuno nel proprio ambito e con le proprie capacità – a comunicare scienza nel modo migliore possibile.






L'Autorità britannica per la fertilizzazione umana e l'embriologia (HFEA) ha dato il via libera, all’inizio dello scorso mese di settembre, alla produzione di embrioni ibridi uomo-animale a fini esclusivi di ricerca scientifica. Una decisione innovativa non solo nel merito, ma anche nel metodo. Perché l’organismo tecnico-istituzionale ha preso la sua decisione solo dopo aver consultato l’opinione pubblica del Regno Unito, che al 61% si è espressa a favore della sperimentazione. La consultazione, durata tre mesi e costata 220.000 euro, è stata tutt’altro che superficiale ed è stata realizzata mediante diffusione di informazioni, dibattiti, focus group. Il sondaggio finale è stato, dunque, la conclusione di un complesso dialogo tra esperti e opinione pubblica. Questo metodo inaugura, forse, una nuova stagione nel complesso rapporto tra ricerca, politica e democrazia partecipata. E certo costituisce una significativa accelerazione nel processo, ormai ineludibile, di costruzione di una matura cittadinanza scientifica.
Ma non vorremmo dare l’impressione di caratterizzare con enfasi eccessiva una vicenda tutto sommato limitata. E allora proponiamo al nostro lettore di fare qualche passo indietro nel tempo e di risalire fino alla prima estate del 1945, quando la guerra in Europa è ormai finita mentre nel Pacifico ancora continua. In quei giorni Vannevar Bush, il consigliere scientifico di Franklin D. Roosevelt, consegna un rapporto al suo nuovo presidente, Harry S. Truman, dal titolo “Science: The Endless Frontier”. La scienza, sostiene il matematico e ingegnere di Bostrom che dirige il Progetto Manhattan, culminato nella costruzione delle bombe atomiche che stanno per essere lanciate su Hiroshima e Nagasaki, è il fulcro su cui fare leva per assicurare la sicurezza – non solo militare, ma anche economica e persino sanitaria – degli Stati Uniti d’America dopo la guerra.
Il rapporto di Vannevar Bush può essere considerato un pò come l’atto di nascita di quella che oggi chiamiamo la società della conoscenza. Perché sull’onda di quel rapporto, prima lentamente poi (dopo il lancio dello Sputnik da parte dell’Unione Sovietica nell’ottobre 1957) sempre più velocemente, cambia il rapporto tra scienza e società: negli Usa e in tutto il mondo cosiddetto avanzato. Infatti gli stati iniziano a investire una quantità di risorse sempre più grande nella ricerca scientifica e nello sviluppo tecnologico (R&S). E si trasformano da mecenati, più o meno generosi, dell’impresa scientifica in veri e propri committenti. A partire dagli anni ’80, poi, negli Usa e poi anche in Europa (con l’eccezione dell’Italia) gli investimenti privati in R&S iniziano prima a eguagliare, poi a superare gli investimenti pubblici. Contribuendo, peraltro, a modificare le antiche griglie valoriali di riferimento degli scienziati.
Il risultato di questo processo – in realtà molto più articolato, di come l’abbiamo descritto – è per lo meno duplice: da un lato, infatti, le conoscenze scientifiche e le nuove tecnologie che ne discendono irrompono sempre più copiose nella nostra vita, individuale e sociale; nel contempo la società (attraverso la politica, l’economia, la cultura) penetra sempre più profondamente nel mondo della scienza, fino ad abbattere del tutto le mura di quella che una volta si chiamava la torre d’avorio.
Il fisico e sociologo della scienza John Ziman ha definito post-accademica questa complessa transizione. Caratterizzata sia dal fatto che un numero crescente di decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza vengono prese in compartecipazione tra le comunità scientifiche e una serie di gruppi sociali di non esperti (politici, manager, tecnici, semplici cittadini), sia dal fatto che un numero crescente di questioni economiche, sociali, culturali, politiche primarie sono informate dalle nuove conoscenze scientifiche.
Di conseguenza, cambia lo statuto, per così dire, ontologico della comunicazione pubblica della scienza. Se prima della seconda guerra mondiale questo tipo di comunicazione era ritenuta non direttamente rilevante per lo sviluppo della scienza, proprio perché gli scienziati vivevano in una torre d’avorio e lì, in splendido isolamento, assumevano la gran parte delle decisioni rilevanti per le proprie ricerche: ora la gran parte di quelle decisioni vengono prese in compartecipazione coi diversi pubblici di non esperti e quindi dipendono, non poco, dai canali di comunicazione che le comunità scientifiche stabiliscono con quei variegati gruppi sociali. Il bisogno di compartecipazione alle scelte è tale che, come è avvenuto con la Human Fertilisation and Embryology Authority nel Regno Unito, sono spesso gli scienziati e le autorità tecno-scientifiche a chiedere esplicitamente che i cittadini partecipino a decisioni che riguardano nuove e delicate ricerche.
In maniera del tutto speculare, la comunicazione pubblica della scienza assume un ruolo nuovo e significativo nelle dinamiche dell’intera società. Proprio perché la scienza entra sempre più nella nostra vita, individuale e sociale, noi – cittadini non esperti – abbiamo bisogno di “saperne di più” sulla scienza, per poter assumere decisioni sempre più consapevoli. In altri termini, la comunicazione pubblica della scienza è diventato un fattore decisivo per lo sviluppo nella società della conoscenza. Sia in termini di quantità (senza un ambiente con una forte e diffusa vocazione all’innovazione l’economia della conoscenza non decolla) che di qualità (senza una cultura scientifica diffusa e critica, la qualità della democrazia nella società della conoscenza perde colpi e la scienza diventa essa stessa fattore di esclusione, invece che di inclusione sociale).
Non si tratta di astrazioni. Al contrario. il digital divide e le health inequalities, ovvero le differenza nell’accesso alle tecnologie informatiche e alle migliori tecniche mediche, sono tra i problemi sociali più urgenti nel villaggio globale. Mentre le questioni bioetiche e le questioni ambientali sono in testa all’agenda politica in quasi tutti i paesi del mondo. Ne deriva che, nella società della conoscenza, la qualità della comunicazione pubblica della scienza è una dei fattori primari dello sviluppo e della democrazia.
Ma nella complessa società della conoscenza, il sistema di comunicazione della scienza è a sua volta un sistema complesso. Costituito com’è da un numero esteso e non ben definito di elementi: a comunicare scienza e a creare immagini scientifiche del mondo non è solo il gruppo sociale che produce la scienza (i ricercatori), ma un’intera costellazione di attori (giornalisti, politici, manager, membri di organizzazioni non governative, religiosi, cittadini tutti), ciascuno portatore di interessi (e linguaggi) diversi. E le connessioni comunicative tra questi gruppi sono oltremodo complesse. Poche sono mediate dagli scienziati o da comunicatori professionali di scienza. La gran parte avviene “sopra la testa” degli scienziati. Basti pensare al contributo non banale che la pubblicità ha nella costruzione del nostro immaginario scientifico. E i pubblicitari parlano, a loro modo, di scienza al pubblico dei comunicatori senza la mediazione dei ricercatori e con interessi (legittimi) molto diversi da quelli degli scienziati.
Non esistono studi sistematici – non in Italia, almeno – che ci consentano di verificare con sufficiente definizione di dettaglio come si sia modificata nel tempo la comunicazione della scienza. Quello che, però, constatiamo è che negli ultimi anni sono aumentate, in Italia, le modalità attraverso cui si comunica la scienza.
Ci sono i nuovi strumenti di comunicazione usati dagli stessi scienziati. Si pensi alla nascita dei science centres che, a partire dall’Exploratorium di San Francisco, costituiscono un’evoluzione del museo scientifico. Si pensi anche alla nascita e alla rapida affermazione (anche e per certi versi soprattutto in Italia) del festival scientifico, che consente ai ricercatori di esplorare forme nuove di comunicazione diretta col pubblico dei non esperti.
Ma, naturalmente, ci sono anche gli strumenti classici della comunicazione di massa (giornali, radio, televisione), dove la scienza ha una presenza notevole. Un’indagine condotta nel 2002 ha dimostrato, per esempio, che la scienza occupa circa il 4% del tempo-notizia dei principali telegiornali; circa l’1,5% dello spazio-notizia offerto dai principali quotidiani italiani e, addirittura oltre l’11% dello spazio-notizia dei principali news-magazine. A questa offerta mediatica occorre aggiungere internet e, poi, i libri. In Italia il numero di lettori che ne usufruisce non è eccezionale, ma la diversità dei titoli scientifici offerti dagli editori è davvero notevole.
Quello dei media non è, tuttavia, un panorama statico. In realtà, il rapporto tra media e pubblico è piuttosto complesso. Lo dimostrano, per esempio, le indagini che periodicamente realizza negli Stati Uniti la National Science Foundation. La fonte primaria di informazione generica per il grande pubblico nell’anno 2004 è risultata la televisione: è da questo medium che il 51% degli americani riceve in prima battuta le notizie. Seguono, col 22%, i quotidiani. Se tuttavia ci si riferisce alle notizie scientifiche e tecnologiche, il quadro cambia leggermente: la fonte primaria resta la televisione (41%), ma ecco che al secondo posto si affaccia internet (18%).
Tutt’altro discorso è quando il pubblico cessa di essere un recettore passivo e diventa protagonista attivo. Quando, cioè, ha una propria esigenza e va a cercare le notizie di scienza. Allora la fonte primaria diventa internet (52%), seguita a grande distanza dalla carta stampata (15%), dalla televisione (13%) e dai libri (12%).
Ma anche in questo caso, siamo in presenza di un quadro in rapida evoluzione. La stessa indagine effettuata solo tre anni prima (nel 2001), mostrava che internet era già la fonte primaria per il pubblico attivamente in cerca di notizie scientifiche, ma in modo meno netto (44%); che al secondo posto c’erano i libri (col 24%), al terzo la carta stampata (14%), mentre la televisione risultava al quarto posto (6%). In soli tre anni il panorama dei media di riferimento per il “pubblico attivo” è stato nettamente modificato: internet ha aumentato di ben 8 punti la sua penetrazione; è cresciuta anche la televisione, mentre la penetrazione dei libri si è dimezzata e quella della carta stampata è rimasta costante.
E tutto questo senza considerare i canali meno espliciti, ma non meno potenti di comunicazione. Un’indagine condotta in Italia nel 2005, per esempio, mostra che almeno il 15% dei messaggi pubblicitari proposti dai principali quotidiani e dalle principali riviste contiene un qualche elemento esplicito di carattere scientifico. Alcuni di questi messaggi – si pensi alle recenti fotografie della ragazza anoressica proposte da Oliviero Toscani in una campagna pubblicitaria per Nolita o a quelle, vecchie di almeno vent’anni, dello stesso Toscani sul malato di Aids in una campagna pubblicitaria per Benetton – hanno una forte capacità evocativa. E contribuiscono in maniera significativa a costruire il nostro immaginario medico e scientifico.
Proprio i messaggi pubblicitari dimostrano quanto articolato e complesso sia diventato, oggi, l’universo della comunicazione pubblica rilevante della scienza. Perché il messaggio pubblicitario viene creato da un gruppo di non esperti (i pubblicitari, appunto) che attraverso un messaggio a contenuto scientifico dialogano con il grande pubblico senza la mediazione né degli scienziati né dei professionisti della comunicazione della scienza.
Ma la pubblicità non è che uno dei canali – forse il più popolare – che consente una comunicazione pubblica della scienza attraverso l’arte. E l’arte non è che una delle modalità di comunicazione pubblica della scienza che avviene in maniera non formale e senza la mediazione degli esperti. In definitiva, le foto di Oliviero Toscani - così come i romanzi di Ian McEwan o i fumetti dei Simpson – appartengono a un’intera costellazione di elementi che costituiscono la comunicazione pubblica rilevante della scienza.
Alcuni di questi elementi – come la scuola o i libri di divulgazione – propongono una comunicazione abbastanza formale. Altri – come il teatro di piazza o i fumetti – propongono una comunicazione informale.
Ancora. In alcuni casi – come le conferenze pubbliche o gli articoli sui giornali – vedono come protagonisti diretti della comunicazione pubblica della scienza gli scienziati stessi. La gran parte – dalle campagne pubblicitarie delle aziende alle campagne dei movimenti ambientalisti, dai talk show televisivi ai passa parola tra vicini di casa o colleghi di lavoro – avviene direttamente tra non esperti, senza la partecipazione diretta degli scienziati o di comunicatori professionali specializzati.
La costellazione dei gruppi sociali che si comunicano scienza in maniera rilevante (sia per lo sviluppo della scienza stessa, sia per lo sviluppo della società nel suo complesso) costituisce, dunque, un vero e proprio sistema dinamico complesso, con un numero enorme di componenti, con un numero ancora maggiore di connessioni e con feedback sia positivi che negativi.
Non aver compreso la complessità del sistema di comunicazione pubblica della scienza ha portato molti scienziati – per esempio quelli che hanno dato vita, soprattutto in Gran Bretagna e Stati Uniti, al cosiddetto Public Understanding of Science (PUS) – a sentirsi frustrati dopo anni di impegno nell’“alfabetizzazione scientifica” del pubblico.
In realtà, bisogna capire che in questo complesso sistema di comunicazione non esistono pallottole d’argento. Non esistono evoluzioni deterministiche, prevedibili a priori. E non esiste neppure la possibilità di stabilire un flusso monodirezionale significativo di comunicazione tra chi sa e chi non sa. Il flusso tra i diversi pubblici è sempre bidirezionale, anche se nell’andata e nel ritorno può assumere forme diverse.
È alla luce di queste considerazioni che molti uomini di scienza e molti comunicatori di professione hanno assunto un’attitudine diversa e dal PUS stanno passando al PEST (Public Engagement in Science and Technology), ovvero dal monologo per l’alfabetizzazione al dialogo per la costruzione di una più matura cittadinanza scientifica dei cittadini (ricercatori compresi).
Un’evoluzione che va nella direzione giusta, se si tiene conto però che una comunicazione pubblica rilevante della scienza avviene anche fuori dal contesto in cui operano direttamente gli scienziati. Che anche gli scienziati sono parte, ancorché significativa, di un sistema e non protagonisti assoluti.
La complessità del sistema di comunicazione pubblica della scienza non esime nessuno, tuttavia, dal dovere di cercare la qualità. Perché è interesse non solo dei ricercatori di professione, ma dell’intera società che la qualità della comunicazione scientifica, in ogni ambito e dimensione, raggiunga il livello più alto possibile. E tutti siamo, dunque, chiamati – ciascuno nel proprio ambito e con le proprie capacità – a comunicare scienza nel modo migliore possibile.
Gli scienziati devono capire come funziona il sistema di comunicazione. I giornalisti devono studiare la scienza, la sua portata culturale, i suoi effetti sociali. Gli artisti devono, forse, imparare a costruire, come diceva Italo Calvino, mappe del mondo più precise per aiutarci tutti a comprendere l’era della conoscenza in cui viviamo. La società intera deve capire che la costruzione di una cittadinanza scientifica consapevole è parte sempre più importante della democrazia stessa.
Certo, imparare tutti – ciascuno nel suo ambito – a comunicare scienza nel modo migliore è un’impresa difficile e faticosa. Da perseguire, con pazienza e determinazione, per prova ed errore. Ma ne vale la pena. Ne và del nostro stesso futuro.