Solo che si fossero potute
aumentare le conoscenze tecniche e le capacità
relazionali degli operatori che normalmente si rivolgevano
per molte ore al giorno a persone con bisogni di aiuto
relazionale specifico, si sarebbero aumentate notevolmente
le possibilità di intervento-cambiamento verso
la crescita ed il benessere di molti 'utenti'.
La base comune ad ogni intervento è che il cambiamento
si ottiene comunque attraverso la relazione: se la capacità
relazionale deriva da maggiore consapevolezza dei meccanismi
psicologici della crescita e dei cambiamenti, potrà,
gestita da chiunque e tanto più da chi è
maggiormente presente a fianco delle persone che ne
hanno bisogno, essere un potente e diffuso agente di
cambiamento positivo.
Da
allora, in seguito a queste riflessioni e verifiche,
mi sono dedicato con particolare entusiasmo alla trasmissione
dei contenuti delle mie conoscenze e della metodologia
dell'attività relazionale alle persone che si
occupavano nella propria attività quotidiana
e quindi per 6-8 ore al giorno di persone in età
evolutiva.
In questi vent'anni ho collaborato così con operatori
dei nidi, delle scuole materne, con insegnanti, educatori
del privato-sociale.
Con colleghi ugualmente interessati, abbiamo formato
operatori che si occupassero di attività preventiva
in centri di aggregazione per adolescenti.
In questi anni ho lavorato anche con operatori che si
occupano del problema dell'handicap all'interno dei
Centri Anffas e, con questi operatori, ho scoperto l'attività
della Pet Therapy.
Devo dire che nei miei studi curricolari mi sono avvicinato
anche all'attività Fisioterapica, dato che nell'attività
neuropsichiatrica infantile si affrontano anche i problemi
delle Paralisi Cerebrali Infantili e di altre difficoltà
motorie.
Nell'ambiente fisioterapico si parlava un pò
criticamente delle forme di terapia con gli animali:
si affermava in particolare che per un fisiatra e per
un fisioterapista ci vogliono molti anni di studio e
preparazione...come si fa a sostenere poi che la terapia
la può effettuare un cavallo?...che formazione
ha un cavallo?.
Si raccontavano una serie di battute scherzose al proposito,
non prive di una loro banale saggezza.
Io mi avvicinai pertanto con una buona dose di diffidenza
e di scetticismo a questa nuova pratica terapeutica
in cui gli animali dovevano essere i protagonisti della
cura; ciò avveniva peraltro all'interno di una
concezione teorica della terapia che veniva intesa come
concentrato di interventi 'normali', mirati ad un progetto
di modificazione della persona.
Accostare
la terapia al rapporto educativo, a tutto ciò
che normalmente si fa, ad esempio con i bambini, permette
di pensare che le otto ore dell'insegnante possono diventare
molto più proficue di un'ora di terapia;
questa infatti non è altro che il mirare, il
concentrare un certo intervento, che rimane comunque
qualitativamente normale, comune, un intervento relazionale,
umano.
Nel mio primo approccio alla Pet Therapy sono rimasto
a lungo ad osservare le video-registrazioni delle sedute
effettuate.
Conoscevo la maggior parte dei ragazzi che partecipavano
alla terapia perchè ne avevo già discusso
in varie occasioni di supervisione presso i Centri che
li ospitavano.
Di altri vedevo e sentivo riferire per la prima volta.
Dopo l'osservazione il gruppo di educatori che partecipavano
all'attività (direttamente o tramite i 'loro'
ragazzi) cercava di interpretare ciò che aveva
osservato nei termini della relazione tra ragazzo ed
animale, di verificare l'efficacia della relazione ai
fini degli obiettivi di crescita, di ipotizzare nuovi
obiettivi e nuove ipotesi sul metodo di intervento.
Per me il fatto più sorprendente fu verificare
che qualcosa si modificava, realmente e rapidamente
nei comportamenti dei ragazzi e che spesso ciò
aveva significato di importante cambiamento esistenziale.
Ricordo il primo caso di una ragazza estremamente passiva,
chiusa in sè e refrattaria sinora a tutti gli
interventi di stimolo ad una pur minima relazione, ad
una qualsiasi attività, ad una anche timidissima
propositività.
Dopo un numero di sedute con il cane, che potevano essere
state 8-10, in tre mesi di attività, si realizzava
nella ragazza una apertura incredibile, un interessamento
verso un essere vivente (un simpatico Labrador) verso
il quale ella accettava di muoversi, e grazie al quale
dimostrava, pur trentenne, una sorta di primo attaccamento
alla realtà esistenziale esterna.
Il fatto mi colpì molto: lo giudicai un grande
successo e fu sulla base di esso che mi impegnai a cercare
di comprendere che cosa era successo nella ragazza,
in che maniera cioè era avvenuto quella sorta
di miracolo che l'aveva 'risvegliata' alla vita.
Il 'miracolo' si sarebbe ripetuto in altri casi e scoprii
più tardi come esso avvenisse in qualità
di cambiamento a livelli diversi dello sviluppo emozionale
delle persone.
Vorrei ora soffermarmi ad analizzare le singole fasi
dello sviluppo emozionale (o psicoaffettivo) e sui fattori
di cambiamento che normalmente favoriscono l'evoluzione
fasica; da questo sarà più facile vedere
dove e in quale maniera l'animale possa inserirsi tra
i fattori di cambiamento che favoriscono la progressione
fasica, il passaggio da una fase a quella successiva.
Riporto dunque alcune nozioni relative alle fasi dello
sviluppo psicoaffettivo: scoperte da Freud ed elaborate
soprattutto negli anni '50-'60 da suoi allievi e seguaci
che si sono occupati dell'età infantile ed evolutiva
(mi riferisco in particolare a Mahler, A.Freud, Klein,
Spitz, Winnicott).
Tali Autori hanno analizzato profondamente l'evoluzione
infantile scoprendovi fasi ben definite, che hanno il
loro percorso naturale nei primi anni di vita (si dice
che a 5-6 anni 'i giochi sono già fatti').
Essi hanno iniziato a denominarle in maniera diversa
rispetto alla classificazione -linguisticamente infelice-
di Freud, il quale parlava di fasi orale, anale e fallico-edipica.
Comparvero così i termini di fase autistica,
simbiotica, di individuazione-separazione (tutte ricomprese
nella fase orale secondo Freud).
La fase anale di quest'ultimo, con un termine meno 'volgare'
poteva essere definita fase aggressiva-trasgressiva-esplorativa-creativa.
La fase edipica è stata tradotta in fase della
competizione.
Il
nome diverso permette una comprensibilità immediata
maggiore (priva di elementi linguistici ad impatto disturbante)
e aumenta la possibilità di proporre i contenuti
della ricerca psicoanalitica ad un pubblico che non
sia solo quello specialistico del 'lettino', ma anche
quello dei genitori, degli operatori, delle persone
che tutti i giorni devono interagire con i ragazzi.
Tali persone potranno avvicinarsi alla comprensione
di fenomeni prima non accessibili e di utilizzare nuove
capacità di analisi per impostare la relazione
in maniera più consapevole ed incisiva.
Ricordo con grande orgoglio professionale i successi
ottenuti ad esempio presso i Nidi dove piccoli utenti,
che sembravano presentare preoccupanti atteggiamenti
di tipo autistico, hanno ripreso il processo evolutivo
con interventi di cura gestiti direttamente dalle puericultrici
una volta che si erano potute leggere correttamente
le difficoltà di questi bambini.
Riporterò ora alcuni assiomi relativi alle scoperte
sulle fasi dello sviluppo psicoaffettivo e sul concetto
di benessere.
Il benessere, si dice, si ottiene solo se si raggiunge
normalmente e regolarmente l'ultima fase, che è
quella della competizione responsabile.
Non c'è nulla di meritevole in questo, non si
tratta di una gara, si tratta semplicemente dell'adattabilità
sociale: il fatto di conseguire, nello sviluppo emozionale,
il primato della competizione sugli altri primati precedenti,
permette di avere un'adattabilità sociale molto
maggiore rispetto al soffermarsi, ad esempio, sul primato
della trasgressività tipico della fase precedente,
o soffermarsi addirittura sul primato dell'isolamento
autistico della prima fase, che impedisce ogni forma
di adattabilità agli altri ed all'ambiente.
Possiamo riassumere dunque che il massimo dell'adattabilità
umana si raggiunge in una corretta evoluzione fasica,
nel passaggio graduale cioè dalla prima all'ultima
fase.
Il fatto di soffermarsi troppo a lungo o stabilmente
a fasi precedenti conferisce una qualità inferiore
alla capacità di adattarsi alla realtà
esterna, delle cose e delle persone.
I passaggi di fase, che avvengono normalmente nell'evoluzione,
possono subire, in condizioni ambientali non favorenti,
degli arresti.
Ciò può avvenire anche per condizioni
non favorenti interne alla persona.
Succede così che dei bambini possano fermarsi
in una fase senza riuscire ad andare avanti, trovando
una sorta di scoglio che impedisce il proseguimento
nello sviluppo dell'emozionalità che, per certi
aspetti, significa passare da una condizione magmatica
ed incontrollabile ad una condizione via via più
definita, raffinata e controllabile, che è quella
che determina la qualità della persona e della
sua vita sociale.
Il benessere deriva da una integrazione sociale adeguata:
poter interagire con l'Altro controllando al meglio
la propria emozionalità, esprimendola nella relazione
significa stare bene.
Chiunque si ponga il problema di come favorire il benessere,
sia nell'ambito di un programma ministeriale rivolto
a tutta la popolazione dello stato, sia all'interno
di un Centro Anffas rivolgendosi ad un gruppo o ad un
singolo utente, potrà seguire il percorso che
indicheremo e che cercheremo di attuare -coerentemente
con la teoria dello sviluppo fasico- perseguendo la
progressione e quindi favorendo il passaggio tra le
fasi.
Nella norma, se non succedono incidenti di percorso
e se la dotazione ambientale e quella personale sono
adeguate -e questo succede nella stragrande maggioranza
delle situazioni- il passaggio tra una fase e l'altra
avviene automaticamente: dalla fase 'autistica' si passa,
col primo sorriso -verso il secondo mese di vita-, alla
fase 'simbiotica', poi, verso la fine del primo anno
di vita, inizia la fase di 'individuazione-separazione',
che dura poi, almeno nel primo abbozzo di identità,
fino ai primi mesi del secondo anno di vita.
Poi inizia la fase 'aggressiva-trasgressiva-esplorativa-creativa';
essa dura normalmente -in relazione alla qualità
dell'educazione messa in atto, fino ai tre anni circa.
Successivamente inizia l'interesse per la competizione
con la 'fase competitiva'.
Va chiarito come in ogni fase esista un interesse prevalente
(o addirittura esclusivo); così fase autistica
significa essere 'interessati' solo a rimanere chiusi
in se stessi, rapportarsi (guardare) solo alle proprie
immagini interne, come se esistesse una sorta di rimpianto
della vita uterina priva di contatti con la realtà
esterna, priva di bisogni e protetta dalle sensazioni
e dai cambiamenti.
La fase simbiotica indica la caratteristica di una vita
psicologica in 'fusione-confusione' con l'Altro, non
distinguendo il bambino ad es. neppure i propri arti
da quelli di chi lo accudisce.
Indica anche il desiderio di essere capaci di rispondere
da soli ai propri bisogni, desiderio che non corrisponde
alla realtà dell'apporto fondamentale di una
madre, di un padre all'accudimento.
Nella simbiosi non distinguiamo questo apporto esterno,
sopraffatti dall'idea dominante di poter essere quelli
che soddisfano i propri bisogni.
Così dunque nell'autismo l'interesse unico è
lottare fortemente per non uscire mai dal proprio guscio,
per non accettare la realtà esterna e rapportarsi
solo con le proprie immagini interne, senza relazionarsi
mai con nulla e nessuno; nella simbiosi l'interesse
è verso il mantenimento dell'idea (delirante)
di essere da soli gli artefici del proprio accudimento
(della risposta a tutti i propri bisogni).
La terza fase, quella dell'individuazione-separazione,
è caratterizzata dalla prima scoperta della propria
identità psicologica e quindi della propria tragica
solitudine a fronte dei bisogni fisici ed emozionali:
ritrovarsi soli, disperatamente soli, significa aggrapparsi
a tutto ciò che appaia come possibile riferimento
personale, le figure parentali in primis, e cercare
di avere da loro conforto in questo primo 'cammino da
soli'.
Siamo all'anno di vita e l'interesse è esclusivamente
centrato sulla paura della solitudine e sul bisogno
dell'Altro.
Dopo la tristezza della terza fase subentra, piano all'inizio
e poi in un crescendo rapidissimo, l'esplosione allegra,
forte, simpatica (ma anche a volte drammatica) del fare
tutto ciò che si vuole.
Quindi esplorare l'ambiente, creare, modificare, rompere,
verificare le reazioni delle persone e riproporre le
esperienze più forti, clamorose, costi quel che
costi...
E' l'epoca dell'interesse centrato sulle regole e sulla
trasgressione, del gusto per il 'no' e per la propria
possibilità di affermarsi colpendo (sadicamente)
gli adulti e le loro cose più care.
Solo alla fine di questo percorso di esplorazione degli
ambienti fisici ed umani, quando il bambino ha capito
che esistono delle regole fisiche alle quali non si
può sfuggire (la gravità c'è sempre,
fa cadere e cadere fa male, sempre...le cose liscie,
quelle ruvide, gli spigoli duri), egli arriva a rendersi
conto che esistono dei limiti oggettivi alla propria
onnipotenza (onnipotenza che egli in questa fase ritrova,
in maniera diversa rispetto a quella delle prime due
fasi, dopo la 'depressione' della terza fase).
La durata di questa quarta fase dipende da quello che
fanno i genitori, da quanto essi siano in grado di opporsi
alla onnipotenza 'anale' del bambino -in maniera comprensiva
ma ugualmente limitante- , per far capire e soprattutto
far rispettare le regole fondamentali della cultura
sociale cui appartengono.
Alla fine di questo percorso in cui l'interesse è
polarizzato solo sulle regole, il bambino si distacca
da questa focalizzazione ed inizia ad interessarsi al
confronto con gli altri.
E' l'inizio dell'ultima fase, quella competitiva.
La competitività è poi la fase in cui
ci ritroviamo noi adulti (semprechè ci siamo
arrivati!); in genere si tratta di una competitività
onesta, a differenza di quella del bambino che, almeno
nella fase iniziale, appare così esasperata da
prevedere anche l'imbroglio per vincere.
Noi adulti, viceversa, abbiamo di solito il piacere
di confrontarci onestamente.
Dunque in ogni fase si realizza una sorta di nucleo
emozionale unico, in cui esiste in pratica un solo interesse.
In sequenza dunque: essere chiusi, essere fusi, essere
impauriti con bisogno di sostegno, essere onnipotenti
ed alla fine competere.
Sappiamo che esistono fattori che favoriscono il passaggio
da una fase all'altra (passaggio cui peraltro siamo
tutti predisposti per una sorta di timing biologico).
Così come esistono fattori che rallentano o impediscono
gli stessi passaggi.
Allora tornando all'assioma che il massimo possibile
benessere corrisponde al raggiungimento del'ultima fase
e che comunque la progressione fasica aumenta il benessere
preesistente, sarà di particolare utilità
per tutti coloro che si occupano del benessere altrui
(e proprio) conoscere i fattori o le modalità
relazionali che favoriscono o rallentano il passaggio
fasico.
Il passaggio dall'autismo, dalla chiusura autistica
alla prima apertura al mondo, confusa ma comunque apertura,
della fase simbiotica avviene attraverso delle forme
di accudimento ad alto contenuto di cura e preoccupazione
'materna': il bambino deve essere seguito con grandissima
dedizione e questo gli permette di aprirsi agli 'accudenti'
ed al mondo di cui essi fanno parte che egli interpreta
come parti di sè.
Il passaggio dalla visione confusa della realtà,
tipico di questa fase, alla prima condizione di identità
definita e separata dal 'resto del mondo' esterno, si
realizza favorendo la distinzione IO-TU e permettendo
l'attesa.
Più un bambino riesce ad attendere, senza cadere
nella disperazione, più egli può accettare
di non essere lui stesso l'artefice della soddisfazione
dei propri bisogni, accettare dunque che ci sia un Altro
che lo aiuta-accudisce, di cui egli ha bisogno: questo
è il meccanismo psicologico -doloroso- con cui
si realizza una prima Individuazione di Sè e
Separazione dall'Altro.
Più il bambino attende e più l'Altro sa
modulare la distinzione Io-Tu, mostrando chiaramente
al piccolo come egli sia una persona e l'altro sia un'altra
persona, più viene favorita l'acquisizione dell'idea
di Identità (propria ed altrui).
Dicevamo che questa è una scoperta estremamente
dolorosa, che la prima identità è di per
sè un'identità dolorosa, ancora bisognosa
di un secondo accudimento -ora consapevole- che ha lo
scopo, non tanto di 'riportare il bambino in braccio'
come a negare la separazione appena realizzata, quanto
di 'seguirlo mentre si muove' come ad affermare-sostenere
le scelte e le abilità personali del bambino
che ora iniziano ad essere messe in moto autonomamente,
anche se timidamente, a margine del vissuto di dolore
che è a lungo presente e sembra sempre indurre
al richiamo dell'adulto, dell'accudimento primitivo
e confusivo.
L'aiuto dell'adulto consiste dunque nel non tornare
indietro, nell'accettare -lui per primo- la nuova condizione
di separazione dolorosa, accettando una vicinanza non
più 'inglobante' ma distanziata ed estremamente
attenta ai movimenti di iniziativa del bambino.
Attenzione dovrà essere rivolta anche alle inevitabili
crisi e richieste (che devono rimanere momentanee) di
consolazione e abbraccio regressivo, subito pronti però
a riprendere l'attività di rassicurazione sulle
nuove possibilità del piccolo che in questo modo
può riprendere la propria prudente esplorazione,
iniziare le prime timide aggressioni e piccole trasgressioni.
Con queste attività, via via meno prudenti e
sempre più forti ed intensive, il bambino si
ritrova nel pieno della fase aggressivo-esplorativo-creativo-trasgressiva.
Il passaggio alla successiva (e finale) della competizione
-che diventerà mano a mano più responsabile-
viene permesso dalla introiezione delle regole che riguardano
il mondo naturale e quello delle relazioni umane.
Ciò implica una grossa e diretta responsabilità
educativa sensu stricto da parte degli adulti referenti.
Aiutare il bambino a sopportare la limitazione della
propria onnipotenza (creativa ma anche distruttiva)
è compito principe degli adulti che educano.
Solo dalla consapevolezza dei propri limiti, che si
instaura nella prima identità del bambino, deriva
la capacità di interessarsi agli altri come persone
simili a sè, persone da trattare bene, come si
desidera essere trattati, e con cui misurarsi, nella
consapevolezza dei propri ed altrui desideri e diritti,
e nella corretta valutazione delle proprie capacità
e della possibilità di migliorarsi, di crescere...
Tutto questo percorso è riassunto in maniera
molto rapida e sommaria (anche se -riteniamo- con correttezza)
per offrire una chiave di lettura coerente a ciò
che ci interessa in questa sede, ovvero la comprensione
dei cambiamenti in senso evolutivo favoriti dalla relazione
persona-animale nell'ambito della Pet Therapy.
Come si può inserire l'azione del cane nell'assetto
psicoaffettivo di una persona influenzandone l'evoluzione?
Ripensiamo a quella ragazza cui accennavo all'inizio:
era in una condizione di apatia assoluta, incistata
al limite dell'autismo (anche se da un punto di vista
strettamente psichiatrico-clinico sembrava trattarsi
di una forma di regressione di tipo depressivo), priva
di riferimenti relazionali per lei accettabili.
Ha potuto recedere dalla propria posizione di chiusura
disperatamente sfiduciata, da quando ha sperimentato
a lungo una relazione costante, abitudinaria, sempre
uguale, sulla continuità della quale ha potuto
contare, con un essere vivente che dimostrava sempre
di volerle bene, testimoniando il proprio attaccamento
con la presenza regolare, il ricordo, le attenzioni
costanti, le manifestazioni affettuose: il cane è
stato per lei come un terapeuta che le ha dimostrato
(non con le parole ma con i fatti della propria dedizione)
di essere per lei una sorta di oggetto di amore primario:
lo ha fatto accogliendola ogni volta che la vedeva,
abbaiandole, avvicinandosi ad ogni suo cenno, leccandola,
standole vicino, accettando le sue prime timide carezze
e rispondendo con gioia ad esse.
Con il cane la nostra ragazza si sentiva importante
per lui ed inoltre, forse per la prima volta nella sua
vita, si confrontava con un essere vivente che le voleva
bene senza chiederle nulla, accettava e gradiva tutto
di lei senza volere nulla in cambio.
Noi adulti spesso facciamo molte richieste di scambio
ai nostri ragazzi in difficoltà: 'Ti dò
una cosa ma tu devi dimostrarmi quest'altra cosa...'
Il
cane non fa questo: è molto puntuale e semplice
nelle proprie offerte relazionali che sono sostanzialmente
di dedizione 'gratuita', con una contropartita che è
solo l'accettare la sua presenza accogliente e sottomessa.
Ciò offre una potente risposta a bisogni profondi
di essere amati 'per quello che io sono, sempre, qualsiasi
cosa io faccia e io sia, anche se non faccio nulla...mi
ama proprio perché non faccio nulla...'.
Porto un secondo esempio: si tratta di un ragazzino
molto, troppo sicuro e 'pieno' di sè. Un ragazzo
disabile, ma anche una peste, una vera peste, che gode
nel mettere in difficoltà gli altri.
Questa sua attività provocatoria e potenzialmente
distruttiva non riesce con il cane, perchè il
cane ha dei propri percorsi esistenziali che non modifica
neppure di fronte alla prepotenza del nostro ragazzo.
Gli operatori che si occupano di Pet Therapy sanno individuare
i cani giusti in relazione ai bisogni di ogni ragazzo:
non tutti i cani sono uguali e vanno proposti nel modo
(contesto, momento, attività, gruppo...) più
adeguato.
In questo caso l'addestratore è riuscito a proporre
un cane in qualche maniera 'seduttivo' per gli interessi
del nostro ragazzo: un cane forte, grande, volitivo,
che rispecchiava i bisogni di dominio aggressivo del
giovane che perciò lo ha affrontato con interesse
inusuale, lui che era affascinato solo dal poter contrastare
gli adulti, metterli in difficoltà comunque.
Entrato nel fascino del 'possesso-utilizzo manipolativo'
del cane, il nostro giovane ha scoperto che in realtà
doveva cedere anche (anzi soprattutto) ai desideri dell'animale
sia come percorsi che come attività, e che non
era così facile provocarlo e tentare di utilizzarlo
in maniera aggressiva come egli era abituato a fare
con gli umani.
La determinazione del cane che non lo abbandonava nè
si arrabbiava per le richieste provocatorie del ragazzo
ma semplicemente le ignorava continuando a perseguire
i propri scopi ludici con lui, offriva a quest'ultimo
una relazione continuativa, sicura, soddisfacente (almeno
per l'aspetto di utilizzo psicologico della sua immagine
di potenza), una relazione che non si faceva nè
modificare nè turbare dagli interventi 'forti'
e tendenzialmente distruttivi del ragazzo.
L'intervento degli operatori rinforzava la proposta
di giochi e percorsi cui il cane era abituato e cui
il ragazzo doveva adattarsi, così accettando
via via regole e comportamenti obbligati, in un processo
di acquisizione di un senso delle regole e dei limiti
fisici e sociali che prima non si era mai potuto stabilire.
Ciò, tramite la 'naturalezza' del comportamento
canino, avveniva evitando i vissuti persecutori che
il ragazzo viceversa sviluppava in ogni tentativo, precedentemente
effettuato dagli adulti, di stabilire limiti e regole.
La sua prima esperienza relazionale non conflittuale
ha luogo di fatto attraverso il rispetto di regole poste
da altri (il cane) e questo è un precedente che
crea spazio per un nuovo percorso relazionale-educativo.
Esiste dunque una scala di comportamenti che possono
essere realizzati nel rapporto animale-persona, che
corrisponde alle relazioni tipiche delle varie fasi
e che aiuta dunque a raggiungere le fasi più
evolute (competizione responsabile): ciò si realizza
ad esempio tramite i comportamenti di accudimento dell'animale.
Si tratta di comportamenti complessi e che richiedono
una maggiore maturità e che sviluppano maggiore
interesse alle proprie capacità con relativo
aumento dell'autostima.
Realizzano altresì -a livello più profondo-
quel bisogno di accudimento che magari uno aveva sentito
carente per sè e che ora può donare all'altro,
compensando così ad una carenza della propria
vita.
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