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Sono giunto all'interesse per la relazione di aiuto tramite l'animale dopo un percorso complesso: da oltre vent'anni collaboro infatti, tramite attività di formazione e supervisione, con operatori del sociale ed educatori che si occupano di minori o persone con handicap psichici e motori.

Ad un certo punto del mio personale percorso di crescita in questo ruolo ho riflettuto sulla specificità del mio intervento ricavandone l'idea che poteva non esserci molta differenza qualitativa tra il mio intervento diretto, nella relazione di aiuto alle persone che mi si rivolgevano, e quello messo in atto dalle persone che normalmente si rapportavano, per proprio ruolo educativo, alle stesse persone.

Solo che si fossero potute aumentare le conoscenze tecniche e le capacità relazionali degli operatori che normalmente si rivolgevano per molte ore al giorno a persone con bisogni di aiuto relazionale specifico, si sarebbero aumentate notevolmente le possibilità di intervento-cambiamento verso la crescita ed il benessere di molti 'utenti'.

La base comune ad ogni intervento è che il cambiamento si ottiene comunque attraverso la relazione: se la capacità relazionale deriva da maggiore consapevolezza dei meccanismi psicologici della crescita e dei cambiamenti, potrà, gestita da chiunque e tanto più da chi è maggiormente presente a fianco delle persone che ne hanno bisogno, essere un potente e diffuso agente di cambiamento positivo.

Da allora, in seguito a queste riflessioni e verifiche, mi sono dedicato con particolare entusiasmo alla trasmissione dei contenuti delle mie conoscenze e della metodologia dell'attività relazionale alle persone che si occupavano nella propria attività quotidiana e quindi per 6-8 ore al giorno di persone in età evolutiva.

In questi vent'anni ho collaborato così con operatori dei nidi, delle scuole materne, con insegnanti, educatori del privato-sociale.

Con colleghi ugualmente interessati, abbiamo formato operatori che si occupassero di attività preventiva in centri di aggregazione per adolescenti.
In questi anni ho lavorato anche con operatori che si occupano del problema dell'handicap all'interno dei Centri Anffas e, con questi operatori, ho scoperto l'attività della Pet Therapy.

Devo dire che nei miei studi curricolari mi sono avvicinato anche all'attività Fisioterapica, dato che nell'attività neuropsichiatrica infantile si affrontano anche i problemi delle Paralisi Cerebrali Infantili e di altre difficoltà motorie.

Nell'ambiente fisioterapico si parlava un pò criticamente delle forme di terapia con gli animali: si affermava in particolare che per un fisiatra e per un fisioterapista ci vogliono molti anni di studio e preparazione...come si fa a sostenere poi che la terapia la può effettuare un cavallo?...che formazione ha un cavallo?.

Si raccontavano una serie di battute scherzose al proposito, non prive di una loro banale saggezza.

Io mi avvicinai pertanto con una buona dose di diffidenza e di scetticismo a questa nuova pratica terapeutica in cui gli animali dovevano essere i protagonisti della cura; ciò avveniva peraltro all'interno di una concezione teorica della terapia che veniva intesa come concentrato di interventi 'normali', mirati ad un progetto di modificazione della persona.

Accostare la terapia al rapporto educativo, a tutto ciò che normalmente si fa, ad esempio con i bambini, permette di pensare che le otto ore dell'insegnante possono diventare molto più proficue di un'ora di terapia;

questa infatti non è altro che il mirare, il concentrare un certo intervento, che rimane comunque qualitativamente normale, comune, un intervento relazionale, umano.


Nel mio primo approccio alla Pet Therapy sono rimasto a lungo ad osservare le video-registrazioni delle sedute effettuate.
Conoscevo la maggior parte dei ragazzi che partecipavano alla terapia perchè ne avevo già discusso in varie occasioni di supervisione presso i Centri che li ospitavano.
Di altri vedevo e sentivo riferire per la prima volta.

Dopo l'osservazione il gruppo di educatori che partecipavano all'attività (direttamente o tramite i 'loro' ragazzi) cercava di interpretare ciò che aveva osservato nei termini della relazione tra ragazzo ed animale, di verificare l'efficacia della relazione ai fini degli obiettivi di crescita, di ipotizzare nuovi obiettivi e nuove ipotesi sul metodo di intervento.

Per me il fatto più sorprendente fu verificare che qualcosa si modificava, realmente e rapidamente nei comportamenti dei ragazzi e che spesso ciò aveva significato di importante cambiamento esistenziale.

Ricordo il primo caso di una ragazza estremamente passiva, chiusa in sè e refrattaria sinora a tutti gli interventi di stimolo ad una pur minima relazione, ad una qualsiasi attività, ad una anche timidissima propositività.
Dopo un numero di sedute con il cane, che potevano essere state 8-10, in tre mesi di attività, si realizzava nella ragazza una apertura incredibile, un interessamento verso un essere vivente (un simpatico Labrador) verso il quale ella accettava di muoversi, e grazie al quale dimostrava, pur trentenne, una sorta di primo attaccamento alla realtà esistenziale esterna.

Il fatto mi colpì molto: lo giudicai un grande successo e fu sulla base di esso che mi impegnai a cercare di comprendere che cosa era successo nella ragazza, in che maniera cioè era avvenuto quella sorta di miracolo che l'aveva 'risvegliata' alla vita.

Il 'miracolo' si sarebbe ripetuto in altri casi e scoprii più tardi come esso avvenisse in qualità di cambiamento a livelli diversi dello sviluppo emozionale delle persone.

Vorrei ora soffermarmi ad analizzare le singole fasi dello sviluppo emozionale (o psicoaffettivo) e sui fattori di cambiamento che normalmente favoriscono l'evoluzione fasica; da questo sarà più facile vedere dove e in quale maniera l'animale possa inserirsi tra i fattori di cambiamento che favoriscono la progressione fasica, il passaggio da una fase a quella successiva.

Riporto dunque alcune nozioni relative alle fasi dello sviluppo psicoaffettivo: scoperte da Freud ed elaborate soprattutto negli anni '50-'60 da suoi allievi e seguaci che si sono occupati dell'età infantile ed evolutiva (mi riferisco in particolare a Mahler, A.Freud, Klein, Spitz, Winnicott).
Tali Autori hanno analizzato profondamente l'evoluzione infantile scoprendovi fasi ben definite, che hanno il loro percorso naturale nei primi anni di vita (si dice che a 5-6 anni 'i giochi sono già fatti').
Essi hanno iniziato a denominarle in maniera diversa rispetto alla classificazione -linguisticamente infelice- di Freud, il quale parlava di fasi orale, anale e fallico-edipica.
Comparvero così i termini di fase autistica, simbiotica, di individuazione-separazione (tutte ricomprese nella fase orale secondo Freud).
La fase anale di quest'ultimo, con un termine meno 'volgare' poteva essere definita fase aggressiva-trasgressiva-esplorativa-creativa.
La fase edipica è stata tradotta in fase della competizione.


Il nome diverso permette una comprensibilità immediata maggiore (priva di elementi linguistici ad impatto disturbante) e aumenta la possibilità di proporre i contenuti della ricerca psicoanalitica ad un pubblico che non sia solo quello specialistico del 'lettino', ma anche quello dei genitori, degli operatori, delle persone che tutti i giorni devono interagire con i ragazzi.

Tali persone potranno avvicinarsi alla comprensione di fenomeni prima non accessibili e di utilizzare nuove capacità di analisi per impostare la relazione in maniera più consapevole ed incisiva.

Ricordo con grande orgoglio professionale i successi ottenuti ad esempio presso i Nidi dove piccoli utenti, che sembravano presentare preoccupanti atteggiamenti di tipo autistico, hanno ripreso il processo evolutivo con interventi di cura gestiti direttamente dalle puericultrici una volta che si erano potute leggere correttamente le difficoltà di questi bambini.


Riporterò ora alcuni assiomi relativi alle scoperte sulle fasi dello sviluppo psicoaffettivo e sul concetto di benessere.

Il benessere, si dice, si ottiene solo se si raggiunge normalmente e regolarmente l'ultima fase, che è quella della competizione responsabile.
Non c'è nulla di meritevole in questo, non si tratta di una gara, si tratta semplicemente dell'adattabilità sociale: il fatto di conseguire, nello sviluppo emozionale, il primato della competizione sugli altri primati precedenti, permette di avere un'adattabilità sociale molto maggiore rispetto al soffermarsi, ad esempio, sul primato della trasgressività tipico della fase precedente, o soffermarsi addirittura sul primato dell'isolamento autistico della prima fase, che impedisce ogni forma di adattabilità agli altri ed all'ambiente.

Possiamo riassumere dunque che il massimo dell'adattabilità umana si raggiunge in una corretta evoluzione fasica, nel passaggio graduale cioè dalla prima all'ultima fase.
Il fatto di soffermarsi troppo a lungo o stabilmente a fasi precedenti conferisce una qualità inferiore alla capacità di adattarsi alla realtà esterna, delle cose e delle persone.

I passaggi di fase, che avvengono normalmente nell'evoluzione, possono subire, in condizioni ambientali non favorenti, degli arresti.

Ciò può avvenire anche per condizioni non favorenti interne alla persona.

Succede così che dei bambini possano fermarsi in una fase senza riuscire ad andare avanti, trovando una sorta di scoglio che impedisce il proseguimento nello sviluppo dell'emozionalità che, per certi aspetti, significa passare da una condizione magmatica ed incontrollabile ad una condizione via via più definita, raffinata e controllabile, che è quella che determina la qualità della persona e della sua vita sociale.

Il benessere deriva da una integrazione sociale adeguata: poter interagire con l'Altro controllando al meglio la propria emozionalità, esprimendola nella relazione significa stare bene.

Chiunque si ponga il problema di come favorire il benessere, sia nell'ambito di un programma ministeriale rivolto a tutta la popolazione dello stato, sia all'interno di un Centro Anffas rivolgendosi ad un gruppo o ad un singolo utente, potrà seguire il percorso che indicheremo e che cercheremo di attuare -coerentemente con la teoria dello sviluppo fasico- perseguendo la progressione e quindi favorendo il passaggio tra le fasi.

Nella norma, se non succedono incidenti di percorso e se la dotazione ambientale e quella personale sono adeguate -e questo succede nella stragrande maggioranza delle situazioni- il passaggio tra una fase e l'altra avviene automaticamente: dalla fase 'autistica' si passa, col primo sorriso -verso il secondo mese di vita-, alla fase 'simbiotica', poi, verso la fine del primo anno di vita, inizia la fase di 'individuazione-separazione', che dura poi, almeno nel primo abbozzo di identità, fino ai primi mesi del secondo anno di vita.

Poi inizia la fase 'aggressiva-trasgressiva-esplorativa-creativa'; essa dura normalmente -in relazione alla qualità dell'educazione messa in atto, fino ai tre anni circa.

Successivamente inizia l'interesse per la competizione con la 'fase competitiva'.

Va chiarito come in ogni fase esista un interesse prevalente (o addirittura esclusivo); così fase autistica significa essere 'interessati' solo a rimanere chiusi in se stessi, rapportarsi (guardare) solo alle proprie immagini interne, come se esistesse una sorta di rimpianto della vita uterina priva di contatti con la realtà esterna, priva di bisogni e protetta dalle sensazioni e dai cambiamenti.

La fase simbiotica indica la caratteristica di una vita psicologica in 'fusione-confusione' con l'Altro, non distinguendo il bambino ad es. neppure i propri arti da quelli di chi lo accudisce.

Indica anche il desiderio di essere capaci di rispondere da soli ai propri bisogni, desiderio che non corrisponde alla realtà dell'apporto fondamentale di una madre, di un padre all'accudimento.

Nella simbiosi non distinguiamo questo apporto esterno, sopraffatti dall'idea dominante di poter essere quelli che soddisfano i propri bisogni.

Così dunque nell'autismo l'interesse unico è lottare fortemente per non uscire mai dal proprio guscio, per non accettare la realtà esterna e rapportarsi solo con le proprie immagini interne, senza relazionarsi mai con nulla e nessuno; nella simbiosi l'interesse è verso il mantenimento dell'idea (delirante) di essere da soli gli artefici del proprio accudimento (della risposta a tutti i propri bisogni).

La terza fase, quella dell'individuazione-separazione, è caratterizzata dalla prima scoperta della propria identità psicologica e quindi della propria tragica solitudine a fronte dei bisogni fisici ed emozionali: ritrovarsi soli, disperatamente soli, significa aggrapparsi a tutto ciò che appaia come possibile riferimento personale, le figure parentali in primis, e cercare di avere da loro conforto in questo primo 'cammino da soli'.
Siamo all'anno di vita e l'interesse è esclusivamente centrato sulla paura della solitudine e sul bisogno dell'Altro.

Dopo la tristezza della terza fase subentra, piano all'inizio e poi in un crescendo rapidissimo, l'esplosione allegra, forte, simpatica (ma anche a volte drammatica) del fare tutto ciò che si vuole.
Quindi esplorare l'ambiente, creare, modificare, rompere, verificare le reazioni delle persone e riproporre le esperienze più forti, clamorose, costi quel che costi...
E' l'epoca dell'interesse centrato sulle regole e sulla trasgressione, del gusto per il 'no' e per la propria possibilità di affermarsi colpendo (sadicamente) gli adulti e le loro cose più care.

Solo alla fine di questo percorso di esplorazione degli ambienti fisici ed umani, quando il bambino ha capito che esistono delle regole fisiche alle quali non si può sfuggire (la gravità c'è sempre, fa cadere e cadere fa male, sempre...le cose liscie, quelle ruvide, gli spigoli duri), egli arriva a rendersi conto che esistono dei limiti oggettivi alla propria onnipotenza (onnipotenza che egli in questa fase ritrova, in maniera diversa rispetto a quella delle prime due fasi, dopo la 'depressione' della terza fase).

La durata di questa quarta fase dipende da quello che fanno i genitori, da quanto essi siano in grado di opporsi alla onnipotenza 'anale' del bambino -in maniera comprensiva ma ugualmente limitante- , per far capire e soprattutto far rispettare le regole fondamentali della cultura sociale cui appartengono.

Alla fine di questo percorso in cui l'interesse è polarizzato solo sulle regole, il bambino si distacca da questa focalizzazione ed inizia ad interessarsi al confronto con gli altri.

E' l'inizio dell'ultima fase, quella competitiva.

La competitività è poi la fase in cui ci ritroviamo noi adulti (semprechè ci siamo arrivati!); in genere si tratta di una competitività onesta, a differenza di quella del bambino che, almeno nella fase iniziale, appare così esasperata da prevedere anche l'imbroglio per vincere.
Noi adulti, viceversa, abbiamo di solito il piacere di confrontarci onestamente.

Dunque in ogni fase si realizza una sorta di nucleo emozionale unico, in cui esiste in pratica un solo interesse.
In sequenza dunque: essere chiusi, essere fusi, essere impauriti con bisogno di sostegno, essere onnipotenti ed alla fine competere.

Sappiamo che esistono fattori che favoriscono il passaggio da una fase all'altra (passaggio cui peraltro siamo tutti predisposti per una sorta di timing biologico).
Così come esistono fattori che rallentano o impediscono gli stessi passaggi.

Allora tornando all'assioma che il massimo possibile benessere corrisponde al raggiungimento del'ultima fase e che comunque la progressione fasica aumenta il benessere preesistente, sarà di particolare utilità per tutti coloro che si occupano del benessere altrui (e proprio) conoscere i fattori o le modalità relazionali che favoriscono o rallentano il passaggio fasico.
Il passaggio dall'autismo, dalla chiusura autistica alla prima apertura al mondo, confusa ma comunque apertura, della fase simbiotica avviene attraverso delle forme di accudimento ad alto contenuto di cura e preoccupazione 'materna': il bambino deve essere seguito con grandissima dedizione e questo gli permette di aprirsi agli 'accudenti' ed al mondo di cui essi fanno parte che egli interpreta come parti di sè.

Il passaggio dalla visione confusa della realtà, tipico di questa fase, alla prima condizione di identità definita e separata dal 'resto del mondo' esterno, si realizza favorendo la distinzione IO-TU e permettendo l'attesa.

Più un bambino riesce ad attendere, senza cadere nella disperazione, più egli può accettare di non essere lui stesso l'artefice della soddisfazione dei propri bisogni, accettare dunque che ci sia un Altro che lo aiuta-accudisce, di cui egli ha bisogno: questo è il meccanismo psicologico -doloroso- con cui si realizza una prima Individuazione di Sè e Separazione dall'Altro.

Più il bambino attende e più l'Altro sa modulare la distinzione Io-Tu, mostrando chiaramente al piccolo come egli sia una persona e l'altro sia un'altra persona, più viene favorita l'acquisizione dell'idea di Identità (propria ed altrui).

Dicevamo che questa è una scoperta estremamente dolorosa, che la prima identità è di per sè un'identità dolorosa, ancora bisognosa di un secondo accudimento -ora consapevole- che ha lo scopo, non tanto di 'riportare il bambino in braccio' come a negare la separazione appena realizzata, quanto di 'seguirlo mentre si muove' come ad affermare-sostenere le scelte e le abilità personali del bambino che ora iniziano ad essere messe in moto autonomamente, anche se timidamente, a margine del vissuto di dolore che è a lungo presente e sembra sempre indurre al richiamo dell'adulto, dell'accudimento primitivo e confusivo.

L'aiuto dell'adulto consiste dunque nel non tornare indietro, nell'accettare -lui per primo- la nuova condizione di separazione dolorosa, accettando una vicinanza non più 'inglobante' ma distanziata ed estremamente attenta ai movimenti di iniziativa del bambino.

Attenzione dovrà essere rivolta anche alle inevitabili crisi e richieste (che devono rimanere momentanee) di consolazione e abbraccio regressivo, subito pronti però a riprendere l'attività di rassicurazione sulle nuove possibilità del piccolo che in questo modo può riprendere la propria prudente esplorazione, iniziare le prime timide aggressioni e piccole trasgressioni.


Con queste attività, via via meno prudenti e sempre più forti ed intensive, il bambino si ritrova nel pieno della fase aggressivo-esplorativo-creativo-trasgressiva.

Il passaggio alla successiva (e finale) della competizione -che diventerà mano a mano più responsabile- viene permesso dalla introiezione delle regole che riguardano il mondo naturale e quello delle relazioni umane.

Ciò implica una grossa e diretta responsabilità educativa sensu stricto da parte degli adulti referenti.

Aiutare il bambino a sopportare la limitazione della propria onnipotenza (creativa ma anche distruttiva) è compito principe degli adulti che educano.
Solo dalla consapevolezza dei propri limiti, che si instaura nella prima identità del bambino, deriva la capacità di interessarsi agli altri come persone simili a sè, persone da trattare bene, come si desidera essere trattati, e con cui misurarsi, nella consapevolezza dei propri ed altrui desideri e diritti, e nella corretta valutazione delle proprie capacità e della possibilità di migliorarsi, di crescere...


Tutto questo percorso è riassunto in maniera molto rapida e sommaria (anche se -riteniamo- con correttezza) per offrire una chiave di lettura coerente a ciò che ci interessa in questa sede, ovvero la comprensione dei cambiamenti in senso evolutivo favoriti dalla relazione persona-animale nell'ambito della Pet Therapy.


Come si può inserire l'azione del cane nell'assetto psicoaffettivo di una persona influenzandone l'evoluzione?

Ripensiamo a quella ragazza cui accennavo all'inizio: era in una condizione di apatia assoluta, incistata al limite dell'autismo (anche se da un punto di vista strettamente psichiatrico-clinico sembrava trattarsi di una forma di regressione di tipo depressivo), priva di riferimenti relazionali per lei accettabili.

Ha potuto recedere dalla propria posizione di chiusura disperatamente sfiduciata, da quando ha sperimentato a lungo una relazione costante, abitudinaria, sempre uguale, sulla continuità della quale ha potuto contare, con un essere vivente che dimostrava sempre di volerle bene, testimoniando il proprio attaccamento con la presenza regolare, il ricordo, le attenzioni costanti, le manifestazioni affettuose: il cane è stato per lei come un terapeuta che le ha dimostrato (non con le parole ma con i fatti della propria dedizione) di essere per lei una sorta di oggetto di amore primario: lo ha fatto accogliendola ogni volta che la vedeva, abbaiandole, avvicinandosi ad ogni suo cenno, leccandola, standole vicino, accettando le sue prime timide carezze e rispondendo con gioia ad esse.

Con il cane la nostra ragazza si sentiva importante per lui ed inoltre, forse per la prima volta nella sua vita, si confrontava con un essere vivente che le voleva bene senza chiederle nulla, accettava e gradiva tutto di lei senza volere nulla in cambio.


Noi adulti spesso facciamo molte richieste di scambio ai nostri ragazzi in difficoltà: 'Ti dò una cosa ma tu devi dimostrarmi quest'altra cosa...'

Il cane non fa questo: è molto puntuale e semplice nelle proprie offerte relazionali che sono sostanzialmente di dedizione 'gratuita', con una contropartita che è solo l'accettare la sua presenza accogliente e sottomessa.

Ciò offre una potente risposta a bisogni profondi di essere amati 'per quello che io sono, sempre, qualsiasi cosa io faccia e io sia, anche se non faccio nulla...mi ama proprio perché non faccio nulla...'.


Porto un secondo esempio: si tratta di un ragazzino molto, troppo sicuro e 'pieno' di sè. Un ragazzo disabile, ma anche una peste, una vera peste, che gode nel mettere in difficoltà gli altri.
Questa sua attività provocatoria e potenzialmente distruttiva non riesce con il cane, perchè il cane ha dei propri percorsi esistenziali che non modifica neppure di fronte alla prepotenza del nostro ragazzo.

Gli operatori che si occupano di Pet Therapy sanno individuare i cani giusti in relazione ai bisogni di ogni ragazzo: non tutti i cani sono uguali e vanno proposti nel modo (contesto, momento, attività, gruppo...) più adeguato.

In questo caso l'addestratore è riuscito a proporre un cane in qualche maniera 'seduttivo' per gli interessi del nostro ragazzo: un cane forte, grande, volitivo, che rispecchiava i bisogni di dominio aggressivo del giovane che perciò lo ha affrontato con interesse inusuale, lui che era affascinato solo dal poter contrastare gli adulti, metterli in difficoltà comunque.

Entrato nel fascino del 'possesso-utilizzo manipolativo' del cane, il nostro giovane ha scoperto che in realtà doveva cedere anche (anzi soprattutto) ai desideri dell'animale sia come percorsi che come attività, e che non era così facile provocarlo e tentare di utilizzarlo in maniera aggressiva come egli era abituato a fare con gli umani.

La determinazione del cane che non lo abbandonava nè si arrabbiava per le richieste provocatorie del ragazzo ma semplicemente le ignorava continuando a perseguire i propri scopi ludici con lui, offriva a quest'ultimo una relazione continuativa, sicura, soddisfacente (almeno per l'aspetto di utilizzo psicologico della sua immagine di potenza), una relazione che non si faceva nè modificare nè turbare dagli interventi 'forti' e tendenzialmente distruttivi del ragazzo.

L'intervento degli operatori rinforzava la proposta di giochi e percorsi cui il cane era abituato e cui il ragazzo doveva adattarsi, così accettando via via regole e comportamenti obbligati, in un processo di acquisizione di un senso delle regole e dei limiti fisici e sociali che prima non si era mai potuto stabilire.
Ciò, tramite la 'naturalezza' del comportamento canino, avveniva evitando i vissuti persecutori che il ragazzo viceversa sviluppava in ogni tentativo, precedentemente effettuato dagli adulti, di stabilire limiti e regole.

La sua prima esperienza relazionale non conflittuale ha luogo di fatto attraverso il rispetto di regole poste da altri (il cane) e questo è un precedente che crea spazio per un nuovo percorso relazionale-educativo.

Esiste dunque una scala di comportamenti che possono essere realizzati nel rapporto animale-persona, che corrisponde alle relazioni tipiche delle varie fasi e che aiuta dunque a raggiungere le fasi più evolute (competizione responsabile): ciò si realizza ad esempio tramite i comportamenti di accudimento dell'animale.

Si tratta di comportamenti complessi e che richiedono una maggiore maturità e che sviluppano maggiore interesse alle proprie capacità con relativo aumento dell'autostima.

Realizzano altresì -a livello più profondo- quel bisogno di accudimento che magari uno aveva sentito carente per sè e che ora può donare all'altro, compensando così ad una carenza della propria vita.

 
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Il commento

L’esperienza

 
Di Maila Quaglia
Cooperativa Sociale Nazareno

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